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348 | scritti di renato serra |
si attarda in episodi e dialoghi d’amore, in osservazioni o massime d’esperienza morale, suona un po’ vuota e monotona; le battute del dialogo son pronte, ma non formano persona agli interlocutori; è una voce sola che parla, sempre Soffici, e la donna non si sente: l’uomo non ha la perfidia psicologica che è necessaria per conversare con l’essere ambiguo.
Si può anche aggiungere che in quella forma del giornale c’è un po’ di trucco; un effetto di prospettiva, per via degli spazi tra un frammento e l’altro, e di quella sospensione che continua gli echi nel vuoto; e poi la bellezza schietta di una qualunque impressione in sè è aumentata dalla curiosità del giornale, che mostra la vita di una persona reale — il «fatto vero» che cercavamo da bambini nei primi romanzi — che lega in un modo così strano e così caro il sentimento dell’uomo alla particolarità fuggitiva dell’istante, al colore dell’aria e del tempo; tutti conoscono l’effetto quasi di fascino che hanno le note di paesaggio, di ora o di luce, trovate in una vecchia lettera: e tutti conoscono anche il senso di meraviglia che ci fanno sempre nella storia letteraria certi pezzi di lavoro non finito, «à bâtons rompus», certe note quasi intime, siano gli appunti di D’Annunzio per il Canto Novo, o i cenni di idilli e l’abbozzo di romanzo in Leopardi, o lo schema di una novella in Flaubert; che si giurerebbe a prima lettura che tutta l’altra opera espressa e perfetta dello scrittore non aggiunge la bellezza di quelle cose non finite di dire: ed è un’illusione, come quella dei geni mancati.
Infine, Soffici ha dei momenti in cui ci dà la prova che nella nostra soddisfazione c’era qualche cosa di gratuito, prestato da noi: il suo potere