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344 scritti di renato serra


Le cose ultime che scrisse sulla Voce del 1912 e poi il Giornale di bordo del 1913, hanno dei momenti che sono stati, dopo le Faville del D’Annunzio, la gioia più cara di quelli che amano l’arte.

Non hanno fatto molto rumore, com’è naturale. Sono momenti troppo puri, e anche troppo radi, per fare effetto sul pubblico; sul quale per esempio facevano assai più colpo i vicini, le tirate di Papini o i giochi verbali di Marinetti; Soffici veniva per ultimo, con una figura di stravaganza e neanche molto rilevata. La personalità di questo scrittore è troppo scoperta nei difetti e nei pregi, che non fanno un corpo verisimile; e quella sua felicità disciolta, senza soggetto e senza schema, si presta male anche agli sviluppi dei critici; egli non ha niente che si possa dedurre da un mondo ideale ben architettato; ha qualche cosa bella, che si può soltanto segnare; e bisogna star attenti, che vicino ce n’è delle brutte, e ci vuol poco a sbagliarsi.

Soffici non è nè un’opera, nè un genere: è un dono. Una cosa fluida; un colore schietto; bisogna avere quella certa facoltà nelle pupille per sentire il valore e il piacere di una frase sola, buttata là e che si regge di per sè, trasparente, limpida, solida, senza pasta e senza ritocco; come la pennellata di un vero pittore, che basta che cada sopra una tela, che scorra modellando se stessa, ed è già bella.

La qualità di Soffici è più pittorica che musicale (intendiamoci, senza nessun rapporto col caso che egli dipinge anche certi quadri: parliamo di valori delle parole): si direbbe solo una sensazione, tanto è semplice; si beve tutta con gli occhi, nella sua freschezza; non ha echi interiori nè sbattimenti di intenzioni non dette compiuta-