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le lettere | 273 |
quel che noi chiamiamo lo spirito, cioè il contenuto, la banalità, quel che si può ridurre in formule e in aneddoti, quel che si può mostrare agli altri come una decorazione sul petto della giacca.
Non si tratta insomma di uno di quei movimenti letterari, che diventano fede e forma degli ingegni, principio di distinzione fra le famiglie spirituali naturalmente diverse. Questo è un vestito che possono indossar tutti, gli eruditi di mestiere e i dilettanti, la serietà un po’ arida di Croce e l’incompetenza rugiadosa e boriosa di Luzzatti, i giornalisti che hanno riimparato il latino e il greco sul Larousse, gli enfants terribles della modernità autodidatta, uso Papini, che voglion mostrare che anche questo territorio l’han corso e lo posson tenere magari meglio degli altri (ed è quasi vero), e i tradizionalisti che trovano di buon gusto tornare al catolicismo, in cui non credono, e all’italiano, che non sanno, e via via i politicanti, le attrici, e infine i professori veri e propri, i tecnici, i divulgatori, la gente capace di consumar la sua vita con Platone e con Virgilio, conservando la mente e il linguaggio del viaggiatore di commercio, che cerca di far concorrenza agli altri articoli «di ultima novità»: i traduttori e i commentatori, che leggono Sofocle e Aristofane, Lucrezio e Shakespeare nell’originale, ma non arrivano a parlarne se non attraverso le fantasie di Nietzsche o le trasposizioni di Pater o il bello stile di Gomperz, senza mutare in quella consuetudine una piega sola della pedanteria scolastica o del ciarlatanismo giornalistico.
Avevamo già detto, ripetendo un luogo comune, che si tratta di cultura e non di stile: a pensarci bene, in queste parole c’è tutta una definizione, che non desidera più chiose.
18. - Scritti di Renato Serra. - I.