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la storia di mario. | 165 |
— gli dicevano i suoi direttori. I giornali e gli amici andavano ripetendo: Sarebbe tempo che Mario si occupasse di un’opera seria; noi l’attendiamo dal suo ingegno, egli ne ha contratto l’obbligo....
Mario, a sentire o a leggere queste parole, impallidiva, sorrideva un poco e non rispondeva verbo. Continuava a lavorare per giornate intiere, arso da una interna febbre, buttando giù senza correggere, passando da un genere all’altro senza intervallo, rubando i quarti d’ora per rinfrancarsi nella lettura, permettendosi di passeggiare solo quando ricercava l’ispirazione, proibendosi qualunque distrazione. Seguitò a prodigarsi nelle gazzette, nelle riviste dove lo chiamavano, dove gli corrispondevano una ricompensa, non rifiutando mai il lavoro, senza tregua, senza riposo. Era una meraviglia la versatilità del suo ingegno, la potenza di assimilazione, la luce che gittava sui soggetti più aridi, la forza di volontà che gli faceva affrontare tutte le quistioni, il coraggio con cui si slanciava in tutte le lotte. Pure in quello che scriveva, si scorgeva una furia, una fretta di giungere alla fine per respirare, per mutar lato come l’inferma di Dante; quasi quasi si comprendeva che egli aveva l’ansia d’intascare quei pochi soldi che gli rendeva l’articolo. Ora il pubblico, sebbene positivo, e perchè positivo, vuole che i suoi scrittori vivano d’aria, che siano superiori ai bisogni della vita, che non pecchino mai di miseria o d’altro simile peccato. Perciò s’incominciò a susurrare di lui: Mario si vuota, egli non scriverà mai nulla di duraturo; forse non ne è capace.