Questo ho pensato, quando ho risaputa la storia di Mario, un piccolo.
Il quale cominciò per essere molto felice, perchè era stupido; a
diciott’anni conosceva poco o nulla — e la madre se ne doleva molto,
avendo molto sperato in quell’unico figliuolo. Mario non voleva
studiare, non amava per nulla il lavoro; amava solo sua madre. Pure
venne il suo giorno, quel giorno che giunge per tutti, il perno
dell’esistenza, il punto culminante della vita: non so come, capitò
nelle mani del giovanetto un grosso volume illustrato: erano le opere
di Shakespeare. Mario a cui non piaceva la lettura, ebbe vaghezza di
vederne le illustrazioni; s’interessò alle scene principali che
rappresentavano; poi le ricercò nell’azione, alla loro pagina; poi
lesse tutto, tutto. Dal mattino all’imbrunire, nel tramonto, nella
sera, nella notte, pallido, curvo sul libro, con gli occhi ardenti, le
mani tremanti nel rivoltarne le pagine, egli fece suo il mondo del
grande inglese. La pietà amorosa di Cordelia, la sfrenata ambizione di
Margherita, la fedeltà severa d’Imogene, l’ingenuo amore di Miranda e
di Desdemona, la passione di Giulietta, il dubbio del pallido
sognatore di Danimarca, il grasso riso di Falstaff, la grandiosa
ferocia di Riccardo, il sogghigno crudele di Shylock, i due Macbeth
corrosi dai rimorsi; la paura, l’odio, il dolore, la gelosia,
l’ironia, i romani, i veneziani, i mori, gl’inglesi; l’umanità, la
vita, la creazione, passarono dagli occhi alla mente ed al cuore di
Mario. Parve che quelle oscurità venissero dileguate dalla folgore
divina, parve che una mano energica avesse bussato a quella mente ed a
quel cuore, comandando loro di