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dell’attenzione 337

tutto quello che sappiamo già classificare fra le varie nostre categorie affettive. Esso, quindi, o dà luogo senz’altro all’evocazione e soddisfazione della rispettiva affettività, come la cascatella d’acqua che in montagna m’invita a berne un sorso, o all’evocazione e sospensione dell’affettività stessa per tema, come sopra abbiamo visto, di qualche effetto spiacevole che possa derivare dal dare ad essa pronta e completa esecuzione, o, infine, non riesce ad evocare in quel momento nessuna affettività, cioè a dire a destare in noi alcun «interesse», come la vista o l’odore di qualche ben nota pietanza quando mi sento satollo: in quest’ultimo caso, l’attività affettiva è ridotta ad un minimo, ogni e qualsiasi stato d’attenzione resta attutito, e si ha così la «monotonia», la noia. Quando questo stato di vitalità affettiva minima si abbassa tino a zero si ha lo stato di «sonno»: «Dormire, dice perfettamente il Bergson, è disinteressarsi. Si dorme nella misurai esatta in cui ci si disinteressa»1.

Un ben piccolo passo separa, infine, la «curiosità» dallo stato d’attenzione proprio dello scienziato che osserva accuratamente un dato oggetto o un dato fenomeno allo scopo di accertarsi se realmente esso presenti o no dati caratteri che altri ha affermato come esistenti o che a lui stesso è sembrato a prima vista di scorgere o che egli ritiene debbano presentarsi. L’esistenza o no di questi caratteri ha sempre per l’osservatore, come lo prova il fatto che egli si accinge ad osservarli con tanta cura, un grande interesse, p. es., perchè essa deporrebbe in favore di certe sue teorie o perchè costituirebbe una scoperta scientifica di somma importanza. Da una parte, quindi, egli ha vivissimo il desiderio che l’esistenza di tali caratteri venga confermata. Dall’altra, è trattenuto dal timore di affrettarsi troppo a propalare una notizia che altri osservatori possano in seguito smentire con grave discredito della sua serietà scientifica. Si pensi, p. es., con quanta «attenzione» — con quanto timore, cioè, di essere stato vittima d’un’illusione ottica — deve aver proseguito lo Schiaparelli le sue osservazioni, prima di decidersi ad annunziare la sua scoperta dei «canali» di Marte! E questo desiderio e questo timore costituiscono appunto anche in tal caso

  1. H. Bergson, Le rêve, «Bulletin de l’Institut Psychologique International», Paris, Alcan. Mai 1901, pag. 118.