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42 | capitolo decimo |
ordinato che si mettessero sotto questa gallina delle uova di pavone; e temo, per bacco, che non abbian già il feto: proviam tuttavia se son bevibili.
Noi presimo de’ cucchiaj non men pesanti di mezza libbra, e ruppimo l’uova, che eran fatte di pasta. Io fui quasi per gittar la mia parte, perchè m’era sembrato che avesse il pulcino; ma poi, sentendo da un vecchio commensale, che alcuna cosa di buono doveva esservi, continuai a rompere il guscio, e vi trovai un grasso beccafico contornato dal tuorlo dell’uovo sparso di pepe.
Trimalcione avea già sospeso il gioco, e d’ogni cosa richiesto, ed a voce alta data a ciascun facoltà di ber nuovamente il vin col miele, quando tutto ad un tratto l’orchestra die’ un segno, e i cibi del primo servizio furon cantando rapiti dagli stessi suonatori. In mezzo a questo rumore cadde a caso una scodella d’argento, ed uno schiavo levolla dal pavimento. Se ne avvide Trimalcione, e, fatto schiaffeggiare lo schiavo, comandò che la rigettasse. Il credenziere le fu intorno, e tra le altre lordure colla scopa la spinse.
Entraron di poi due chiomati Etiopi34 con alcuni piccioli otri, simili a quelli co’ quali s’innaffia l’anfiteatro; e porsero il vin con essi, giacchè nessun contenea acqua.
Applaudito il signore per siffatte morbidezze, disse: MARTE FA TUTTI EGUALI; ordinò dunque allo Scalco di assegnare a ciascuno la propria mensa, e soggiunse: e questi servi troppo numerosi tolti di qui ci sminuiranno il calore.
Portaronsi tosto bottiglie di vetro egregiamente turate, che avean di fuori un biglietto con questo titolo:
FALERNO D’OPIMIO35
D’ANNI CENTO.
Intanto che leggevamo i cartelli, Trimalcione battutesi le mani sclamò: ohimè, ohimè! il vin dunque vive