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in fronte il nome di coloro che gli scrissero, adottano il nome di colui che grandeggiò nell’arte, della quale è in essi trattato, e adduce l’esempio de’ libri intitolati Apicius de re culinaria, e Cato libellus dystichorum, i quali nè Apicio, nè Catone sicuramente composero, ma così furon detti, perchè Apicio fu uomo sommo nella ghiottoneria, e Catone nella severità de’ costumi. Questa congettura, sulla quale il Burmanno non si ferma gran fatto, riconoscendola troppo debole e sfiancata, è stata ultimamente con molto apparato logico accettata ed ammessa come una verità incontrastabile dal signor Ignarra sapientissimo Napoletano nella veramente dotta ed erudita sua dissertazione de Palaestra Neapolitana. Chi forzò Cicerone, dice egli, a dare il nome di Filippiche alle orazioni ch’ei scrisse contro Antonio, se non perchè eran dettate a simiglianza di quelle di Demostene contro Filippo, come è noto sino ai fanciulli? Sappiamo che il Petronio console riferito da Tacito nel sedicesimo era salito in fama per tracuranza e morbidezza, che i suoi fatti e detti, quanto parean più liberi, tanto piacevano più. Dall’impudentissimo Nerone egli era stato innalzato Arbitro di sue delizie: scriveva leggiadre poesie e facili versi; e cangiata poi la fortuna, e da Nerone costretto a morire volontariamente, ei mandò scritte al Principe le sue ribalderie con tutte le disoneste sue foggie, sotto nome di sbarbati e di femmine. E ciò potrebb’essere ragione più che bastante, perchè un libro di argomento ed ingegno quasi consimile, ove gareggiano l’erudizione, l’eleganza e il concorso di molli versi e di oscenissime ribalderie, atteso il costume d’imporre que’ nomi che più convengono alle cose, venisse intitolato Petronio Arbitro: imperocchè solamente con questo titolo il lettore riman prevenuto, che il libro così intitolato esce come dall’officina di Petronio, e quasi è scritto di sua mano.

Io non capisco in qual modo questa opinione così ragionata possa persuadere non dico un Ignarra, uomo