262 Aveva Carlo un suo certo schiavone
Lungo tempo tenuto, detto l’Orco,
Che godeva la notte il ribaldone
Nel sangue imbrodolato come un porco;
E stava all’uscio con un gran bastone,
Ch’egli avea fatto d’un certo biforco:
E chi voleva fuggir dalle poste,
Convien che prima contassi con l’oste.
263 Non si potea qui dir, come Biante:28
Io me ne porto ogni mia cosa meco:
Più tosto molto ben le rene infrante
Da quel baston se ne portava seco;
E s’alcun pur gli scappava davante,
Calò, calò si potea dire in greco;
Perchè e’ faceva le persone destre,
E bisognava calar le finestre.
264 E’ pareva ogni cosa vetro o ghiaccio,
Dove e’ giugnevan quelle sconce botte:
E scrive alcun di questo ribaldaccio,
Ch’egli arrostì de’ moricin la notte,
Che gl’infilzava in quel suo bastonaccio,
Poi gli mangiò come porchette cotte;
Ma perchè il caso non mi pare onesto,
Credo che Carlo non sapessi questo.
265 E così fu questa città dolente
Con fuoco e sacco rovinata tutta,
Sì che, a veder la rovina e la gente,
Una cosa pareva schifa e brutta;
E non è maraviglia veramente
Che così in una notte sia distrutta,
Chè le moschee rovinavano a ciocca,
Tanto l’ira del ciel sopra trabocca.
266 Avea già Anselmo e poi Chiron mandato
Carlo a Marsilio, per quel ch’io ne ’ntendo;
E fu ferito l’un, l’altro ammazzato;
Cioè Chiron, indrieto poi venendo:
E Carlo aveva molto minacciato,
Gerusalem, Gerusalem, dicendo,
tu piangerai, Siragozza ribalda,
Nè pietra sopra pietra in te fia salda.