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398 il morgante maggiore.

262 Aveva Carlo un suo certo schiavone
     Lungo tempo tenuto, detto l’Orco,
     Che godeva la notte il ribaldone
     Nel sangue imbrodolato come un porco;
     E stava all’uscio con un gran bastone,
     Ch’egli avea fatto d’un certo biforco:
     E chi voleva fuggir dalle poste,
     Convien che prima contassi con l’oste.

263 Non si potea qui dir, come Biante:28
     Io me ne porto ogni mia cosa meco:
     Più tosto molto ben le rene infrante
     Da quel baston se ne portava seco;
     E s’alcun pur gli scappava davante,
     Calò, calò si potea dire in greco;
     Perchè e’ faceva le persone destre,
     E bisognava calar le finestre.

264 E’ pareva ogni cosa vetro o ghiaccio,
     Dove e’ giugnevan quelle sconce botte:
     E scrive alcun di questo ribaldaccio,
     Ch’egli arrostì de’ moricin la notte,
     Che gl’infilzava in quel suo bastonaccio,
     Poi gli mangiò come porchette cotte;
     Ma perchè il caso non mi pare onesto,
     Credo che Carlo non sapessi questo.

265 E così fu questa città dolente
     Con fuoco e sacco rovinata tutta,
     Sì che, a veder la rovina e la gente,
     Una cosa pareva schifa e brutta;
     E non è maraviglia veramente
     Che così in una notte sia distrutta,
     Chè le moschee rovinavano a ciocca,
     Tanto l’ira del ciel sopra trabocca.

266 Avea già Anselmo e poi Chiron mandato
     Carlo a Marsilio, per quel ch’io ne ’ntendo;
     E fu ferito l’un, l’altro ammazzato;
     Cioè Chiron, indrieto poi venendo:
     E Carlo aveva molto minacciato,
     Gerusalem, Gerusalem, dicendo,
     tu piangerai, Siragozza ribalda,
     Nè pietra sopra pietra in te fia salda.