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canto decimosesto. 335

52 Lascia questo pensier sì stolto e vano,
     Comincia a rassettar la tua armadura,
     Chè questo nostro Cristo e partigiano
     Non so come comporta tua natura;
     Vedi ch’addosso ci viene il Soldano;
     E se tu abbatti Antea per tua ventura,
     Che questo regno e tutte sue contrade
     Sicuro abbiam, sanza operar più spade.

53 Quando Rinaldo si vide scoperto,
     E non potè celar quel ch’è palese,
     Rispose sospirando: Io veggo certo
     Che queste al nostro Dio son grave offese,
     E molta punizion, come di’, merto;
     Ma se quel Giove Dio non si difese
     Da questo amor, nè ’l bellicoso Marte,
     Che val qui la mia forza, o ingegno o arte?

54 Io voglio al campo andar, ch’io l’ho promesso,
     E porterò la lancia e ’l brando cinto,
     Ma come potre’ io ferir me stesso,
     O vincer mai colei che m’ha già vinto?
     Io ho la mente cieca, io tel confesso,
     Ed anco il mio signor cieco è dipinto,
     E guida a questa volta il cieco l’orbo:
     Dunque tu bussi a formica di sorbo.8

55 Io non posso voler, perch’io non voglio;
     Lasciar costei, dunque io non voglio o posso;
     Io non son più il cugin tuo, com’io soglio,
     Però che questo è mal che sta nell’osso;
     E s’io sapessi gittar questo scoglio,
     Sarebbe Salamon suto un uom grosso,
     Aristotile, e Socrate, e Platone:
     Dunque, fratel, non ne facciam quistione.

56 Ch’io non vo’ disputar d’astrologia
     Con quel che non sa ancor che cosa è stella;
     Io non vo’ disputar di cerusia
     Con chi sempre ara, o macina, o martella;
     Io non vo’ disputar quel ch’amor sia
     Con un che sol conosce Alda la bella;
     Ma priego Amor che qualche ingegno trovi,
     Acciò che tu mi creda, che tu ’l provi.