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ad una prova sì dolorosa. Imparino invece, se così posso esprimermi, ad arrestare nel suo rapido volo l’immaginazione che coglie il bello fuggendo. Non vengano all’opera stanchi, e come a dire consunti nella contemplazione del loro soggetto, se non vogliono che si vegga riflettuta nell’opera la loro stanchezza. Pur troppo, in onta a tutta la diligenza che usassero, troveranno sempre la materia sorda a rispondere, come divinamente notò l’Alighieri maestro d’ogni più riposta dottrina. A questo tormento è necessario che si apparecchino, ma abbiano in esso quasi un indizio dell’elevatezza del loro animo. È pur misero chi, dopo aver parlato, o scritto, o per altra guisa tentata una manifestazione degl’interni suoi sentimenti, si sente avere l’anima intieramente vota, e, come a dire, spuntato l’acume del desiderio. L’impossibilità di adeguare coi mezzi materiali la bellezza delle proprie concezioni irrita e tiene sempre desto quel principio di attività, nel quale sono riposte le maggiori consolazioni di una vita condannata alle dubbiezze, e di cui la speranza è il bene supremo. Lessi di non so qual filosofo, che, chiamato a scegliere tra il diletto che presumeva potergli cagionare la scoperta della verità, e il diletto che continuamente provava nella ricerca di quella, non avrebbe dubitato di anteporre al primo il secondo. Questo voto, trattandosi di dottrine scientifiche, potrà odorar di egoismo, ma trattandosi d’arti credo possa esser fatto da ogni animo retto e gentile.