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l’umorismo e la retorica 49

vano come una macchinetta, la scioglievano in un rapporto logico, la catalogavano, magari aggiungendo una nuova casella al casellario. Così avvenne, ad esempio, per il dramma storico di quel gran barbaro dello Shakespeare. Si diede per vinta la Retorica? No: dopo avere abbajato per un pezzo, prescrisse le norme per il dramma storico, accolto nel casellario. Ma è anche vero che questi cani, quando s’abbattevano a un povero poeta indebolito di mente, ne facevano strazio e lo costringevano a tartassar la propria opera non condotta a puntino sul modello imposto alla imitazione forzata. Esempio: la Conquistata del Tasso.

La coltura, per la Retorica, non era la preparazione del terreno, la vanga, l’aratro, il sarchio, il concime, perchè il germe fecondo, il polline vitale, che un’aura propizia, in un momento felice, doveva far cadere in quel terreno vi mettesse salde radici e vi trovasse abbondante nutrimento e si sviluppasse vigoroso e solido e sorgesse senza stento, alto e possente nel desiderio del sole. No: la coltura, per la Retorica, consisteva nel piantar pali e nel vestirli di frasche. Gli alberi antichi, custoditi nella sua serra, perdevano il loro verde, appassivano; e con le frondi morte, con le foglie ingiallite, coi fiori secchi essa insegnava a parar certi tronchi di idee senza radici nella vita.

Per la Retorica prima nasceva il pensiero, poi la forma. Il pensiero cioè non nasceva come Minerva armata dal cervello di Giove: nudo nasceva, poveretto; ed essa lo vestiva.

Il vestito era la forma.

La Retorica, in somma, era come un guardaroba: il guardaroba dell’eloquenza, dove i pensieri nudi andavano a vestirsi. E gli abiti, in quel guardaroba, eran già belli e pronti, tagliati tutti su i modelli antichi, più o meno adorni, di stoffa umile o mezzana o magnifica, divisi in tante scansie, appesi alle grucce e

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