Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
14 | parte prima |
al Nencioni sembrava (e non a lui soltanto) che l'umorismo stesse di casa: non ha forse nome d’umorista Mark Twain, i cui racconti sono, secondo la sua stessa definizione «una collezione di eccellenti cose, prodigiosamente divertenti, che strappano il riso anche dai volti più ingrugniti?»
Il giornalismo, un certo giornalismo si è impadronito della parola, l’ha adottata e, sforzandosi di far ridere più o meno sguajatamente a ogni costo, l’ha divulgata in questo falso senso.
Cosicchè ogni vero umorista prova oggi ritegno, anzi sdegno a qualificarsi per tale. — Umorista, sì, ma ma... non confondiamo, — si sente il bisogno d’avvertire: — umorista nel vero senso della parola.
Come dire:
— Badate, io non mi propongo di farvi ridere facendo sgambettar le parole.
E più d’uno, per non passar da buffone, per non esser confuso coi centomila umoristi da strapazzo, ha voluto buttar via la parola sciupata, abbandonarla al volgo, e adottarne un’altra: ironismo, ironista.
Come da umore, umorismo; da ironia, ironismo.
Ma ironia, in che senso? Bisognerà distinguere, anche qui. Perchè c’ è un modo retorico e un altro filosofico d’intendere l’ironia.
L’ironia, come figura retorica, racchiude in sè un infingimento che è assolutamente contrario alla natura dello schietto umorismo. Implica sì, questa figura retorica, una contradizione, ma fittizia, tra quel che si dice e quel che si vuole sia inteso. La contradizione dell’umorismo non è mai, invece, fittizia ma essenziale, come vedremo, e di ben altra natura.
Quando Dante aggrava la riprensione eccettuando dal numero dei ripresi chi è più riprensibile, come per la brigata dei prodighi matti, allor che esclama: ...Or fu giammai | Gente sì vana? e un dannato rispon-