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12 parte prima


Del resto, non si creda che la parola inglese humour e il suo derivato umorismo siano di così facile comprensione.

Il D’Ancona stesso, in quel suo saggio su l’Angiolieri, su cui più tardi dovremo ritornare, confessa: «S’io dovessi dare una definizione dell’umorismo sarei davvero molto impacciato». Ed ha ragione. Tutti dicono così.

Piuttosto no ’l comprendo, che te ’l dica.


L’Addison stesso stimava più facile dire ciò che l’humour non è, che dire ciò che è. Tutte le fatiche che si son fatte per definirlo ricordan pur troppo quelle speciosissime che si fecero nel secolo XVII per definir l’ingegno (oh, il Cannocchiale aristotelico di Emmanuele Tesauro!) e il gusto o buon gusto e quell’ineffabile non so che, per cui il Bouhours scriveva: «Les Italiens, qui font mystére de tout, emploient en toutes rencontres leur non so che: on ne voit rien de plus commun dans leur poëtes». Gl’Italiani «qui font mystére de tout». Ma andate a domandare ai Francesi che cosa intendano per esprit.

Quanto all’umorismo, «certo è, — seguita il D’Ancona, — che la definizione non è facile, perchè l’umorismo ha infinite varietà, secondo le nazioni, i tempi, gl’ingegni, e quel di Rabelais e di Merlin Coccajo non è una cosa coll’umorismo dello Sterne, dello Swift o di Gian Paolo, e la vena umoristica dello Heine e del Musset non è di egual sapore. Non vi ha poi forse alcun altro genere nel quale sia, o dovrebbe esser più sottil differenza dalla forma prosaica alla poetica, per quanto ciò non venga sempre avvertito dai lettori, e neanche dagli scrittori. Ma di ciò, e delle ragioni di queste differenze, e delle varietà fra l’umore e la satira e l’epigramma e la facezia e la parodia e il comico d’ogni foggia e qualità, e se, come vuole il Richter,