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Il dottor Tibia era sui cinquant’anni ed aveva sposata una vedova molto matura, molto ricca e molto brutta.

Il salotto dove aspettava la gente era quasi buio, a cagione dei vetri verdastri, delle pitture vecchie e offuscate dei muri, tappezzati del resto da ragnatele. V’erano alcuni quadri di cui non si distingueva più nulla, tanto erano anneriti dal fumo, e v’erano alcune stampe a color verde, tutte mitragliate dalle mosche. Delle seggiole, nessuna che avesse le sue quattro gambe in buono stato; una copertina nascondeva l’imbottitura sdruscita d’un canapè a tela di crini. Dallo sfondo di due tavole di legno bianco sbadigliavano i busti di un Apollo, a cui mancava il naso, e d’un Esculapio senza orecchie nè mustacchi.

Questa stanza trasudava la tristezza.

Le camere interne denunziavano i gusti della moglie e quelli del marito, poichè vi si osservava una spinetta che aveva rotte soltanto nove corde, quelle probabilmente che la voce della signora Tibia aveva perdute, dacchè aveva principiato a cantare sulle ginocchia del maestro: Bel raggio lusinghiero. Una nicchia in vetro rinchiudeva un presepio ove il bambino Gesù aveva una parrucca a coda, i buoi dalle corna dorate e la Vergine la cipria e dei nèi. Sopra un tavolino, due enormi corna di Transilvania per scongiurare la jettatura; sullo scrittoio del dottore l'Uffizio della Beata Vergine, un volume di Metastasio e le Novelle morali del padre Soave, della Compagnia di Gesù. Dappertutto un odore di rinchiuso; poichè dottor Tibia