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una festa italica 329

III.


Il rito


E ogni anno nel mese di maggio, nel quale nacque il poeta, un poeta, inferiore ma non indegno, che durante l’anno avesse inalzato il più persuasivo canto di concordia o il più animoso poema di conforto o il più sublime inno di gloria, in pro’ di questa Italia che non si sa se più giustamente si chiami la vecchia Italia pensosa di memorie o la giovine Italia vibrante di speranze; quel poeta dovrebbe muovere per quell’ombra chiara, in quel silenzio vivo, tra quel rito invisibile, a quell’arca che è un’ara, e recidere all’ulivo sacro un ramo, e portarlo a quell’accolta dei figli di Dante che più nell’anno avesse operato per la italianità. E così quest’anno a voi sarebbe venuto quel ramo, simbolo di pazienza e di forza, di pace sì ma anche di gloria, di copia sì ma anche di luce, di balsamo sì ma anche di fiamma.



IV.


Ciò che non è e ciò che è


Ma non quello che dovrebbe essere, è. L’arca dell’esule non è nella foresta dove egli credè vedere, vide, la sua beatitudine; dove il dannato al rogo, al taglio della mano, al taglio del capo, il macro fuoruscito vile divenuto agli occhi di molti, il peregrino, il mendico, legno senza vela e senza governo, che