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una festa italica 327

Egli non cura l’onda che passa ai suoi piedi, intento al chiocchiolìo della fonte o al frastuono della foce. O meglio: il poeta ha sotto gli occhi quell’Arari di così incredibile lenità, che non si vede da qual parte scorra; ciò che egli ode, non sa se sia il canto di ciò che fu o l’inno di ciò che sarà. Oh! fossi io un antico poeta dell’avvenire! Io sarei venuto, a questa solennità augurale, dal sepolcro di Dante. Ben sarebbe ragione. E il sepolcro non sarebbe dove è. Io lo vedo ove dovrebbe essere: nella pineta di Classe, poco lontano dalla basilica di Apollinare. Vedo, sì, l’antica arca lapidea, ma la vedo tra i grandi pini della foresta spessa e viva. Quella foresta è il tempio di Dante, solo tempio degno di lui. Molte lunghe navate, sorrette da alte colonne di pini vivi, s’irraggiano d’intorno all’altare. Un’ombra piena di mistero è per gl’intercolunnii, sotto verdi volte. Il folto musco del terreno attuta il rumor dei passi. Si esala d’ogni parte odor d’incenso e di fiori. Il sacro rito vi si celebra continuamente e da per tutto; e non si vede dove e da chi. Un bisbiglio, un sussurro, una melopea solenne e dolce risuona, portata da un alito assiduo. Sotto l’ombra perpetua si muovono acque brune brune, invitando alla purificazione, ad obliare ogni male, a lasciarsi portare a ogni bene. E il vento dell’aurora porta l’effluvio dell’instancabile mare, e sveglia mille gridi, stridi, trilli, gorgheggi di piena letizia.