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l’eroe italico 205

VI.


Eppure se si fosse chiesto a lui vivo ciò che ancora chiediamo a lui morto, qual aggiunto dovremmo appiccare al suo nome, come par necessità che si debba appiccare sempre e a ognuno; qual aggiunto di parte o partito, perchè in vero chi è tale da non patir quell’aggiunto, non ha carattere, non è uomo, non è nulla, è un degli ignavi di Dante, nè vivi nè morti; e mettiamo ancora che sia un angelo, ma è di quelli nè ribelli nè fedeli... Ma Dante taglia qui la parola al suo fratello dell’azione, e risponde prima esso, dal volume eterno, e dice:

— Confondereste voi me che feci parte per me stesso, con i neutrali del vestibolo, che non ebbero insegna? Sono io simile a coloro sdegnati dalla giustizia e misericordia? Cieca direste e bassa la mia vita? Direste che il mondo non lascia esser fama per me?

Quel destino di oscurità, cecità, nullità nella vita e nella morte, io l’ho fuggito attraverso l’inferno, per il baratro e per il monte e per le sfere, passando per il fuoco mistico e per la sventura vera, io: io sono il supremamente diverso da quelli che restano nell’atrio, io sono il contrapposto perfetto di colui che fece il rifiuto per viltà: io sono Dante Alighieri e quello è l’innominato. Eppure, sì, è vero, nè egli ebbe parte nè io.

Ma io era libero, perchè la mia voce sicura, balda e lieta sonava la mia volontà! io aveva tagliato con non so quale spada quel nodo che ne impaccia dentro, nodo che io mi spiego in una guisa e voi vi spiegate