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200 | pensieri e discorsi |
IV.
Ma io anche più agevolmente di voi sento la somiglianza e l’unione, nel mio spirito, dei due nomi e delle due anime, dell’eroe del pensiero e del poeta dell’azione. Io li ho, si può dire, veduti insieme, li ho uditi parlare! Sì: fu in una grande selva di pini. Fu in un’ombra tutta odorata di resina e di mare, in un silenzio solenne e religioso, appena turbato da qualche strillo d’uccello impaurito e dagli scatti delle cavallette, che schizzavano di tra gli aghi inaspriti dei pini, via via che il piede avanzava. E a quando a quando la brezza marina faceva di ramo in ramo un lungo brivido e sussurro.
In quella selva antica errò Dante ed errò Garibaldi. Quella selva fu, come è probabile, modello della divina foresta. In essa, forse, Dante raffigurò lo stato perfetto della vita attiva, la conclusione d’un esercizio assiduo di virtù contro il nemico interno e i turbamenti esterni, che lo rifece innocente e imperturbabile. Dante giungeva ad essa, alla Pineta di Ravenna, da una vita di stenti e di rischi; con una condanna ad aver tagliata la mano ed essere arso vivo; nell’esilio amaro che non doveva mutare se non nella morte; dopo aver lasciata ogni cosa diletta più caramente. E ad essa giungeva anche Garibaldi. Vi giungeva da Roma, che aveva difesa invano, vi giungeva dopo le traversie d’una marcia fra quattro eserciti nemici, dopo aver lasciata la terra per il mare, dopo essere stato ributtato dal mare nelle sterili arene del lido Adriano; vi giungeva come una rapida e serpeggiante meteora che dalle ripe del