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Così sentivano que’ gloriosi, e così la pensarono sempre tutti que’ grandi che siedono in cima per gloria di letteratura. E la storia dal 300 fino a noi ci dimostra che siccome in Roma la lingua latina fu maggiormente in fiore quando più si coltivava la greca: così per tutta Italia quanto più si coltivò la latina e più si rese illustre la toscana favella. Perciò meglio per l’ordinario hanno scritto nell’italico idioma quegli che più perfettamente possedevano il latino, siccome, oltre i celebrati Maestri del 300 nel Bembo, nel Sannazzaro, nel Vida, nello Sperone, nel Caro, ne’ due Tassi, nel Pallavicino, nel Segneri, e in altri autori può scorgersi. Della qual verità tanta avea persuasione anche il vostro Astigiano, il Sofocle d’Italia che nel suo proemio alla traduzione di Sallustio lasciò scritto così: “Io da giovinetto induceami ad intraprenderla (vi ripeto le sue parole) sì pel trasporto che mi cagionava l’autore, sì per la necessità che forte incalzavami di meglio imparar l’italiano, poiché debolissimo latinante mi conoscea.”

Per le quali solenni autorità si fa manifesta, o Cherici dilettissimi, la necessità di porre ogni studio nella lingua latina, se così splendido esempio ci tramandarono i nostri primi maestri. E per verità se gli antichi fanciulli Romani, per testimonianza del grand’istorico Livio, apprendevano l’antichissima, e già da lungo tempo spenta lingua etrusca (nella stessa guisa che al tempo mio, dic’egli, apprendono la greca) perciocché nei libri etruschi contenevansi gli augurii, le divinazioni e le cerimonie dei sagrifizj, non forse anche per questa principalissima ragione dee chi che sia dalla prima fanciullezza studiare in quella lingua che a noi è chiave e fonte di religione, in cui ama Dio d’esser lodato, e (salvo le lingue orientali e la greca, nelle quali per venerazione della loro antichità il Romano Pontefice permette che il divino servizio si celebri) niuna delle altre lingue ha po-