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chio.... Oh! le odi barbare rendevano il suono di ben altro fiume, di ben altro mare, la cui voce perenne giungeva alle nostre anime dalla profondità dei tempi consumati: era l’Ilisso, era l’Egeo....

          Tu parli, e de la voce a la molle aura
          Lenta cedendo s’abbandona l’anima
          Del tuo parlar su l’onde carezzevoli
                         E a strane plaghe naviga.
          Naviga in un tepor di sole occiduo....

Ricorda, caro maestro? ricorda? E come no, se sono cose indimenticabili? come no, se le si ripetono quando si vuole, solo a sentire pronunziare un di quei versi?

Così sentivo e sento. Il ritmo de’ versi classici c’era, ma riflesso; e così riflesso, ci si sentiva e sente per una virtù propria del poeta: senza la quale, egli non sarebbe riuscito a fare se non ciò che fece quel povero Commodiano. Il qual Commodiano, come ha dimostrato il Ramorino1, leggendo gli esametri classici ad accento grammaticale, ne fabbricava di consimili, senza curarsi d’altro che di quell’accento, e così verseggiava:

In lege praecepit Deus caeli terrae marisque
e
Nolite, inquit, adorare deos inanes.

E quel che fece Commodiano, mendico di Cristo, a metà del secolo terzo, fecero nei secoli decimoquinto e decimosesto gli Alberti e i Tolomei cercando

  1. Si tenga presente la bella memoria di F. Ramorino: «La pronunzia popolare dei versi quantitativi latini nei bassi tempi Torino, Clausen, 1893».