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assai la tua salute, ed il tuo petto che una volta era molto gracile, non è vero?

Ti voglio raccontare un mio sogno. Io sognava, prima della ultima tua lettera, che l’opera a Fermo terminasse prima degli otto di settembre, e speravo che se io ti avessi detto, Marianna mia, fa di trovarti a Loreto il giorno otto, io ti ci avrei trovata; ché in quel giorno noi siamo soliti di andarvi. Vedi che bel sogno, e come mi dilettava! È vero che è morto Tommasini, e che aveva avuto dei disgusti a Parma per gli affari di questa primavera? La moglie (cui io avevo scritto una volta per Giacomo) mi mandò l’anno passato una copia della sua operetta, e mi scrisse molto affettuosamente, e volle ch’io non le dessi più del lei, e che seguissi a scriverle, ma non ci scriviamo più, perchè son io creditrice di risposta, e tutte le lettere sommano a tre, una sua e due mie.

Giacomo sta molto meglio. Ci dice che ha cangiato tenor di vita, che mangia come mangia tutto il mondo, che ha fatto conoscenza con la vedova Bonaparte, ch’egli trova molto amabile1, ma egli ci scrive pochissimo. Hai veduto il nuovo volunetto dei suoi versi stampato e che noi non abbiamo ancora potuto vedere?

Marianna mia, ti è venuta la fantasia di avere il mio ritratto? Hai ragione che non ti posso negare nulla, perchè, se sapessi! Mia madre non fece tempo a sacrificare alle grazie prima di partorirmi; gràvida di 7 mesi cadde dalle scale, ed io mi affrettai tosto di uscire fuori



  1. Epist., lett. 478.