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istante quest’ultimo paragrafo, ed un riso inestinguibile mi assale, perchè vedo che ho spiegato benissimo che in quel giorno la neve sopra il parapetto lo poneva quasi a livello della finestra).

Ma tu non puoi pensare al nostro orribile stato, tu che godi sempre di si bel sole che io t’invidio con tutta la potenza dell’anima mia. E credimi pure che se io non valgo mai nulla, in questo tempo poi divengo meno del nulla, perdo ogni sentimento, meno quello del soffrire grandemente in questa stagione dolorosa, alla quale non vi è modo di avvezzarci, chè ogni anno cagiona un nuovo affanno, un tormento nuovo. E se un inverno rigido è fastidioso in una città brillante, immaginati cosa debba essere in un paese orribile come il mio, ove bisogna assaporarlo goccia per goccia, ed ove ogni momento strappa un sospiro. Hai fatto bene a scegliere il tuo albergo lungo l’Arno, del quale Giacomo mi ha fatto una descrizione incantevole, e di cui egli mi diceva che non potrà mai dimenticarsi1. Mi scrive però una signora di Pisa che costì quest’anno fa freddo grande e che vi ha nevicato abbastanza: e tu non te ne sei accorta? Sai chi è questa signora? È la moglie del prof. Regnoli; era la Lazzari di Pesaro, pronipote di mia nonna paterna, per conseguenza un poco anche mia parente, che è stata in monastero a Recanati, che mi vuol bene, e che mi scrive che vuole che vada a Pisa a star con essa. Sebbene sieno due o tre anni ch’essa è costi, pure non può accomodarsi con cotesta gente



  1. Epist. lett. 353.