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nostre parole. Questo fatto, con intenzione più men benigna, ci è osservato anche dagli stranieri. «La lingua italiana? — ho inteso dire — ma se non sapete nè meno voi come si pronunciano le parole!» Certo la cosa è difficile per varie ragioni intrinseche, e perchè l’etimologia non sempre è un aiuto sicuro (es. in latino è dìvido, in italiano divìdo; in latino è dèstino, in italiano destìno, appunto per la tendenza nostra, popolare, all’accento parossitono) e perchè non v’è accordo nell’uso delle persone colte, il quale potrebbe essere il giudice più autorevole. Converrebbe che qualche accademia, dicastero, scuola, consesso (perchè no la Dante Alighieri?) di uomini autorevoli troncasse le questioni in modo assoluto e stabilissero essi l’accento di queste parole. Ma prima di tutto le accademie e i ministeri si occupano di altro, inoltre il popolo italiano come non accetta volentieri leggi ed autorità, nè relativa nè assoluta in politica, tanto meno le accetterebbe in fatto di lingua, dove ognuno è difensore della più ampia libertà sino a giungere all’assurdo logico di non più intendersi. Non sarà un bel carattere, ma è così. Ma v’è anche una ragione esteriore ed è questa: il poco amore che noi abbiamo per quel fenomeno massimo ed assoluto della nazionalità che è la lingua. Scarso o artificioso il sentimento nazionale, scarso il sentimento di rispetto e di conservazione della lingua patria. Ciò è logico. Logico pure è tuttavia il confermare che se questo amore per l’idioma natio fosse in noi, ognuno si studierebbe naturalmente, spontaneamente di essere quanto più egli può puro e concorde nella pronuncia delle parole, evitando almeno quell’errore che proviene da schietta e cara ignoranza. Venendo ad esempi ed a casi pratici, osserviamo come i nomi storici ed i nomi propri siano sine lege vagantes, essi che pur furono oggetto di tanti studi. Gli intendenti di lingue classiche sanno che si deve dire Eráto, Nèmesi, Prometèo, Prosèrpina, Afrodìte, Agamènnone, Àtropo, Diòscuri, Èlleni, Edìpo, etc. Ma molti non dotti dicono erroneamente Èrato, Nemèsi, Prometèo, Proserpìna. La libertà, inoltre, concessa ai poeti, di abbreviare od allungare le sillabe secondo le ragioni metriche, ha contribuito ad aumentare le incertezze anche pei nomi dove le lingue classiche ci fornirebbero norme sicure di pronuncia. Incertezza pure grande è nei nomi geografici, anche nostri o vicini. Es. Frìuli e Friùli, Andalùsia, e Andalusìa. Se poi entriamo nel campo dei neologismi scientifici (vocaboli non tutti registrati, anche nei migliori dizionari moderni) la confusione è al colmo. L’ostinazione degli scienziati presso di noi nell’amare certi suoni è pari solo all’incuria che essi hanno dell’arte della parola, nè pensano che dal rettamente, elegantemente, decorosamente esporre e scrivere, come si costuma in Francia, la scienza stessa trarrebbe incremento e vantaggio. Presso di noi solo il letterato, il poeta hanno dovere di bene scrivere. Cosí dunque noi abbiamo flogòsi per flògosi, cristàllino per cristallìno, circuìto per circùito, azòto ed àzoto, micròbo e mìcrobo, anòfele e anofèle, edèma ed èdema, coccìge e còccige, batràce e bàtrace, etc. Ricordo un dotto scienziato che in una sua lettura publica voleva assolutamente dire zàffiro e non zaffìro. Non valse l’autorità del Carducci:

E di zaffíro i fior paiono

ma ci volle quella di Dante per indurlo alla retta pronuncia:

Dolce color d’oriental zaffìro.

Molte volte l’errore proviene da ostinazione accoppiata ad ignoranza e ad inveterata abitudine: Testìmone invece di testimóne (voce forense di Lombardia) àratro invece di aràtro. Molte volte da persistente influsso dialettale, specie nell’Alta Italia. Così a Milano dicono mòllica e non ne vogliono sapere di mollìca, come dicesi in ogni altra parte d’Italia, utènsile in luogo di utensìle (lat. utensìlia). Non so bene in altre parti d’Italia, ma nelle scuole di Milano dove ho alcuna esperienza, la incertezza della pronuncia raggiunge delle proporzioni comiche. Egli è però vero che talora l’incertezza si origina dal dissidio tra la norma data dalla etimologia e la forza buona dell’uso, dai criteri e dalle