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loro. Es. con lei non ci parlo. Si potrebbe tuttavia obbiettare che in tal caso questo ci è un pleonasmo. Vero è che la forma letteraria loro, a loro è lunga e greve e nell’uso familiare vi supplisce il ci e, meglio, il gli, che è d’uso toscano, V. Gli.

Ci e chi, gi e ghi: suffissi dei plurali dei nomi della seconda declinazione in co e go al singolare. Ogni grammatica dà sue norme per la formazione di questi plurali: il vero è che norme sicurissime mancano; e talora sì la forma gutturale dolce come l’altra forte hanno giusta ragione di essere. E non solo nel popolo v’è incertezza nella formazione di questi plurali, come in selvatici e salvatichi, greci e grechi, porci e porchi, ma gli stessi autori classici coi loro esempi ci danno documento di tale incertezza. In questo lessico sono, volta a volta, notati quei nomi dove l’uso, mal sicuro, ha bisogno del conforto de’ buoni esempi letterari. Il sig. F. Pastonchi di tale questione fece argomento per uno scritto in giornale politico (Corriere della Sera, 4 gennaio 1903) il che per la singolarità del caso, cioè darsi in Italia importanza ad una questione grammaticale, torna ad onore e di chi scrisse e del giornale. Ma mentre trovo ragionevole la conclusione: «essere dovere accettare dall’uso quei plurali già foggiati per non intralciar di più dubbi il nostro linguaggio», non così è buona l’altra conclusione nei casi dubbi: «il nostro orecchio sarà il nostro unico regolatore, nella mancanza d’una legge fissa. La sola armonia saprà essere l’unico e indefinibile limite alla nostra libertà.» Cotesto è, per lo meno, un eccessivo attestato di fiducia nel senso estetico e fonico del publico.

Cia e gia: desinenze non accentate dei nomi come provincia, guancia, quercia, fascia, pioggia, focaccia, socia, etc. al plurale si mutano in ce e in cie, in ge e gie. Si mutano in ce e in ge, cioè perdono la i, quando la c o la g sono precedute da consonante onde spiagge, lance, fasce, guance, cacce, pance, sagge, bocce: conservano invece la i, quando sono precedute da vocale, onde socie, règie, fallacie, acacie, audacie, camicie, egregie, etc. Però non solo non mancano eccezioni come provincia che fa provincie, ma nell’uso si scrive talora pioggie, pancie quercie, lancie, focaccie, benchè la c e la g siano precedute da consonante.

Ciaffo: cencio cosa di poco valore, nel dialetto marchigiano.

Ciàna: voce prettamente dialettale fiorentina, che i dizionari registrano in omaggio a quel dialetto: dicesi di donna volgare e pettegola: risponde press’a poco al milanese zabetta.

Cianfrinare: una delle non poche voci deformi, provenutaci da lingue straniere e, per fortuna, limitate a speciali linguaggi: questa, all’industria meccanica de’ calderai, e significa comprimere, accecare i lembi delle lamiere de’ serbatoi o caldaie affinchè vi sia una buona tenuta, cioè che i liquidi contenuti non trovino alcun passaggio o fuga. Fr. chanfreiner. I meccanici usano anche le voci cianfrinatura = ricalzamento degli orli delle lamiere e delle teste dei chiodi, fatta col cianfrino = bulino.

Cianòsi: termine medico, derivato dal greco kîanos = azzurro oscuro, ed indica quel colore pavonazzo, violaceo, che assume la pelle in certi stati gravi di alcune malattie, e proviene da intossicamento del sangue.

Ciao: per addio è voce dell’Alta Italia (piemontese cerèa) e pur nota e usata anche in altre regioni. Pare corrotta da schiavo. Ciavo suo = servitor suo, ciavo obbligato (Cherubini, voc. milanese) Ciao è anche voce usata in Lombardia come esclamazione di chi si rassegna a cosa fatta e che pur dispiaccia.

Ciaramella: nel dialetto napoletano indica la piva con cui rustici suonatori in certi loro antichi vestiti vanno per le case sul mezzodì suonando la novena dell’Immacolata e del Natale. È l’antica voce cennamella:

          nè già con sì diversa cennamella
          cavalier vidi mover nè pedoni,
          né nave a segno di terra o di stella

Dante, Inf. XXII

cennamella diminutivo e corruzione di cálamus = canna.

Cicca o cica: mozzicone, avanzo di