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Dicevamo dunque, che uno dei caratteri generali più spiccati di codesto intermezzo di citazioni frammentarie e tentativi di traduzione andati a male, consiste proprio nel fatto che non è più il poeta di Nice, ma quello della Patria che troviamo ora alla moda.

Il Metastasio infatti, mentre „presentì la gran rivoluzione... che sopravvenne... a schiantar l’impero da lui amato”1 e cantato, trovò anche accenti d’ineffabile dolcezza e d’insolita sincerità ed efficacia ogni qualvolta gli accadde di toccar la corda dell’amor patrio. Rileggiamo i versi indimenticabili del Temistocle, là dove al rimprovero di Serse (Atto II, Sc. 8):

               Ah dunque Atene ancora
Ti sta nel cor! Ma che tanto ami in lei?


l’eroe risponde, in uno scoppio improvviso di passione a lungo compressa, ch’è un protendersi di tutta l’anima verso un passato ormai irrevocabile, in un tumulto tragico di ricordi e di rimpianti:

Tutto, signor; le ceneri degli avi,
     Le sacre leggi, i tutelari Numi,
     La favella, i costumi,
     Il sudor che mi costa,
     Lo splendor che ne trassi,
     L’aria, i tronchi, il terren, le mura, i sassi;


e non ci meraviglieremo, che, anche in Rumania, degli spiriti desiderosi di libertà s’ispirassero talvolta ai versi di questo nostro poeta, che non fu sempre il rappresentante di quell’epoca, più a dir vero triste che vergognosa della storia italiana civile e letteraria, che troppi critici soglion ingiustamente dileggiare qual madre adultera del cicisbeismo e dell’Arcadia, mentre portava nel seno i germi fecondi della rinascita futura. No, il Metastasio non fu solo il poeta della Primavera e dell’amor querulo e lascivo dei pastorelli d’Arcadia: fu il poeta di Roma e della virtù latina, il poeta di Regolo e di Tito; nè solo per Fillide o per Clori egli pianse, ma anche per le trafitte amare della nostalgia; e



  1. G. Carducci, Melica e lirica nel Settecento (vol. XIX delle Opere), Bologna, Zanichelli, p. 83.