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nem, accenni qui brevemente, a costo di ripetere cose già dette, i motivi principali che mi fanno essere della sua opinione, e di quella d’altri distinti giureconsulti (segnatamente nella discussione avvenuta nel 1841, alla Camera dei Deputati di Francia) intorno alla così detta, e mal detta, Proprietà letteraria.

La proprietà ha per sua naturale e necessaria materia, degli enti reali; giacchè, solamente, com’Ella dice benissimo, «le cose corporali e limitate possono appartenere esclusivamente a taluno,» val a dire a un essere limitato come loro. Ora, quale è la vera proprietà che una legge possa vedere e riconoscere nell’autore d’un libro, di cui abbia pubblicata un’edizione di tanti o tanti esemplari? Questi esemplari medesimi, dal primo all’ultimo, senza dubbio, e il manoscritto, se l’ha conservato; ma questa vera e reale proprietà, una tal legge non poteva pensare a assicurargliela c’erano per questo le leggi più vecchie (e di quanto!) che proteggono ogni sorte di proprietà. Le leggi relative all’argomento in questione non fecero, e non potevano ragionevolmente far altro, che proibire agli altri la ristampa del libro medesimo. È un intento e un effetto, giustissimo per tutt’altre ragioni, ma puramente negativo. Ora, chi potrebbe mai intendere, o come si potrebbe pensare una proprietà che consistesse tutta quanta in una mera negazione

Di più, com’Ella osserva ugualmente bene, la proprietà è trasmissibile indefinitamente; e, certo, sarebbe cosa assurda in sè e impraticabile, la proprietà d’una tale privativa, che avesse a passare per una successione indefinita d’eredi e di compratori, e, s’intende, degli eredi anche di questi. Ella dimostra poi che sarebbe un’assurdità, anche maggiore, quella di far materia di questa proprietà anche l’idee. Ma, se non m’inganno, questo strano concetto non fa parte della questione. I più ardenti propugnatori della Proprietà letteraria non l’applicano che agli scritti. Se, al tempo del Galileo, fosse stata in vigore una legge quale è voluta, credo, quasi da ognuno, e intesa da tutti, non avrebbe conferito al grand’uomo alcun novo diritto contro quelli che davano per fatte da loro le sue mirabili scoperte si sarebbe trovato ugualmente con quello solo che aveva e di cui fu costretto a fare tanto uso: cioè il diritto di dire e di provare che le scoperte le aveva davvero fatte lui. E perchè il confronto dei vocaboli che esprimono idee chiare, è un mezzo tanto breve quanto efficace di significare la distinzione delle cose, i vocaboli plagio e contraffazione servono benissimo a un tale effetto. La legge colpisce la seconda, e non si dà, nè deve darsi pensiero del primo.

Finalmente, la proprietà è tutta intera in ogni parte dell’ente posseduto. Se d’un fondo di mille tornature1, un vicino n’usurpa una, il proprietario la può rivendicare, come farebbe del fondo intero: se d’un poema di mille ottave uno ne ristampa anche molte, in un articolo di giornale, o in un libro, e, se occorre, col fine di criticarle; a nessuno, nemmeno all’autore criticato, viene in mente di fargli carico d’aver violata una proprietà.

  1. Mi prendo la libertà, giacchè questo non è uno scritto forense, di servirmi di questo vocabolo che, nella legge di pesi e misure del così detto Regno d’Italia (qual Regno e quale Italia!) corrispondeva all’Hectare de’ Francesi. E non mi posso tener dall’esprimere il dispiacere che, nella legge destinata a divenir quella del vero Regno d’Italia, non sia stata adottata la nomenclatura dell’altra, i vocaboli della quale avevano un viso italiano, e erano comodissimi all’uso; e si sia fatta in vece una traduzione letterale de’ nomi francesi, tra i quali, non il grecismo, ma la storpiatura greca nel vocabolo Ettare, e altri di suono ugualmente eteroclito, difficili a ritenersi, e facili a cagionare equivochi, principalmente per le persone illetterate, o poco letterate, come decalitro e decilitro e simili.