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sulla lingua italiana | 417 |
lingua sola da sostituire alle molte che pur troppo abbiamo. Tanto una realtà, appena appena le si conceda un po’ di posto accanto a una chimera, ha forza di scacciarla, e di prendere il posto intero, se, dopo averle messe insieme, si mettono anche alle prese!
« Scegliete dunque una delle due, per non rimanere in contradizione con voi medesimi. O volete che ci sia una lingua comune di fatto a tutta l’Italia; e ricredetevi, maravigliatevi d’aver trovata cosa naturalissima, che un dotto Italiano andasse a cercar vocaboli a Firenze: ridete ora per allora. Ma per aver ragione di ridere, dimostrate poi, anzi affermate semplicemente, se ve ne sentite, che, per significar le cose comuni a tutta l’Italia, ci sono vocaboli comuni in tutta l’Italia, e che, per conseguenza, avrebbe potuto, senza prendersi tanto incomodo, trovarli in Torino. Che dico trovarli? Li doveva sapere; giacchè cosa diamine vorrebbe dire una lingua comune a tutta l’Italia, e nella quale un dotto Italiano non sapesse nominare tante cose che gli occorre di nominare continuamente? O non vi sentite d’affermare, nè, per conseguenza, di ridere; e allora riconoscete che la vostra lingua italiana non ha ciò che è essenziale alle lingue, ciò che ognuno s’aspetta di trovare in ognuna, ciò che è implicito nel vocabolo medesimo; in somma che non è una lingua.
« Ho detto: la vostra; perchè non si tratta qui di cambiare una denominazione, ma di levarle un falso significato. Non si tratta di rinunziare al carissimo nome di lingua italiana, nome che l’Europa c’insegnerebbe, quando non l’usassimo noi, come chiama lingua spagnola quella che gli Spagnoli chiamano ancora castigliana; nome che ragionevolmente è prevalso a quello di lingua toscana, il quale, nè corrispondeva rigorosamente al fatto, Perchè la Toscana ha bensì lingue pochissimo differenti, ma non ha una lingua sola; nè esprimeva in alcuna maniera l’intento, che è d’avere una lingua comune all’Italia intera. Si tratta d’applicare quel nome a una cosa reale, e dalla quale si possa, per conseguenza, aver l’effetto che si desidera; a una cosa, alla quale convenga il sostantivo prima di tutto e poi anche l’aggettivo; a una cosa che sia e lingua e italiana; lingua per natura, e italiana per adozione, perché voluta dagli Italiani per loro lingua comune. E si tratta forse di dare ora per la prima volta questo senso alle parole: lingua italiana? No, di certo; chè, se è un pezzo che sono adoperate per combattere quella lingua reale, è anche un pezzo che sono adoperate per significarla. E per addurne un solo esempio, il Tasso citato poco fa, in un luogo del secondo discorso dell’arte poetica, dopo aver detto che molte cose, le quali stanno bene nella favella greca o nella latina «suonano male nella toscana,» aggiunge: «Ma fra l’altre condizioni che porta seco la nostra favella italiana, ecc.» adoprando così promiscuamente e indifferentemente le due locuzioni, «favella toscana, favella italiana,» come affatto sinonime.
« Non mancò poi anche chi le dichiarasse espressamente sinonime. E per citare anche qui uno scrittore non fiorentino, nè toscano, ma di Bosisio, sul lago di Pusiano, nel contado milanese, Giuseppe Parini dice, (nella seconda parte de’ Princípi delle Belle Lettere) che, per gli scritti principalmente di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, la lingua toscana è stata promulgata in Italia, «talmente poi che è divenuta comune a tutti gli Italiani, e da ciò ha il nome più generale acquistato d’italiana.» Ecco come il fatto si manifesta, alla prima, nella sua forma propria e naturale, a chi lo guarda con un occhio tranquillo, e non intorbidato da false visioni. Lingua diventata comune per consenso, affinchè diventi comune, quanto è possibile, per possesso; diventata italiana di nome e affinchè diventi, per quanto è possibile, italiana di fatto, e perchè lo è già diventata in parte.