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del chiabrera 393

al Parnaso, lo mi sono spaccialo dalle ciancie mie; ho fatto un fascietto di versi, i quali voglio salvare dal foco, e stamperollo se mi si darà tempo; se non mi si darà, correranno quei versi lor ventura. In lunga età ho composto moltissime cose, parte per mia vaghezza, parte per tentare la liberalità dei principi, parte per prova di studio, parte per musica e per compiacimento. Di quegli una verità si può allarmare, cioè, che tutti sono vili cose e da non stimarsi. E così credo, ma perchè non posso tormi il titolo di poeta da dosso, sono volentieri obbligatomi a testimoniare in parte qual sia il mio giudizio intorno a' miei componimenti, e perciò di mia volontà stamperansi alcune cose. Veramente gl'ingegni da me trattati sono fieri e grandi, ma se sono entrati nella scuola degli antichi o no, io non voglio nè affermare nè negare: darà sentenza chi verrà. Ben dico a V. S. che fare scrivendo maravigliare il mondo è foltissima impresa, ed io per verità ne dispero la mia possanza. Ma che? Abbiamo con onesta dolcezza speso ii tempo, e dimostrato desiderio di lasciar memoria appresso gli uomini, che noi fummo tra gli uomini; e ciò dee bastare alle cure mortali: l'avanzo deesi a maggiori e migliori pensamenti. Piacemi di cotesto giovane modancao, e più mi piace se egli non condanna la mia fantasia intorno all'imitazione degli antichi, de' quali chi non conosce il valore o è angelo o bestia: io così fermamente credo. Ho voglia e quasi bisogno per farmi vivo di venire ad assalirvi; ma avendo con V. S. stanza acconcia per lo verno, forse indugerò alquanto per venire più scarico. Intanto mi raccomando agli amici. Saluto il sig. Sanseverino ed il padre Fossa ed in somma tutti. Alle mie signore faccio riverenza. Del rimanente io veggo tuttavia il nostro ciclo ingombrato di mali vapori. Dio grandissimo provegga, di cui la misericordia risplende allora vie più, quando egli non si sdegna di gastigarne. E Dio sia con tutti.

Savona.


al medesimo


Di costì ci vengono le novelle; qui non se ne creano, dunque intorno a' movimenti del mondo io mi taccio. Io mi reggo, e speranza di bene non mi abbandona. Pensando a Fassolo, di donde poco col pensiero soglio allontanarmi, vienmi in memoria che V. S. scrisse aspettatisi l'adriana Sirena, degna di sì fatte marine. Non voglio tacere, che è da pensare se si falli allogai e si falle allegrezze potessero in Roma non bene essere intese. Il mondo è grande e ripieno d'ingegni strani, se' savio, e intendi me' ch'io non ragiono, disse Dante. Io mi ricordo che Aristotele disse, che i vecchi erano invidiosi, e si attristavano che altri godesse ciò ch'essi perdeano; e di qui è la gran malevolenza de' diavoli verso gli uomini chiamati al retaggio de' cieli. Non parlo più da filosofo. ma voglia entrare nelle belle lettere, rallegrando le mie noie con la dolcezza delle Epistole di Cicerone. Lessi ieri l'altro la prima del libro tredicesimo del volume ad Atticum. Trattava domestiramente di scritture sue da darsi a leggere e a' popoli, e di sua bocca confessa di aver errato non intendendo la proprietà di alcun vocabolo; ed era ciò, ch'egli valendo esprimere ciò che noi diciamo sciare, avea detto levare remi. Sono sue parole: arbitrabar sustinere remos, cum inhibere essent remiges jussi; id non esse hujiusmodi didici heri; non enim sustinet, sed alio modo remigant. Così scrive Cicerone; e commette ad Attico che faccia emendare la scrittura. Soggiunge poi trattando di alcuno componimento suo intitolato a Varrone: Epistola mea ad Varronem valde ne tibi placuit? Male mi sit, si unqualm tantum enitar. Signor mio, lette queste parole, io stetti alquanto pensososo, poi dissi meco: Marco Tullio emenda un vocabolo, ed afferma che spese ogni suo sforzo in un foglio, ed io vermicello impolveralo dentro alla terra stampo mie ciancie con allegrezza, nate con poco ingegno e cresciute senza alcun pensamento di balia? Pagherei una dobla avere in mia balia miei componimenti per trattarli come meritano i talenti e gli studi de' miei pari. Ora io ho fatta la vendemmia, ho riscosso mie pigioni, dato ordine a' miei affari per vivere l'anno che viensene; viverò poveramente, ma che monta? se in ogni modo scandit aeratas vitiosa naves Cura, nec turmas equitum relinquit? E qui mi raccomando a tutti, ed a lutti faccio riverenza, specialmente alle mie signore, e mi ricordo servidore al rev. abate Fossa. E quando costi si stampa da' nostri Accademici Peregrini scrittura, non sia dimenticata la mia solitudine.

Dal mio Alberghino mentre piovea, e però mi tratteneva co' pensieri gentili.


al medesimo


Ho ricevuto tutte le lettere di V. S. ed ultimamente una del Serenissimo Duce (Agostino Pallavicini), tutta ripiena di alta umanità; nella quale per preghiera di V. S. mi promette quegli onori, che già mi furono promessi (conferma della franchigia ec.); ed io supplico a farmene degno fino a quel segno che consenta la mia modestia, lo affermo trovarmi sul confine della vita: ho provato di riposarmi in letto, e le forze non mi servono; ma senza infermità sento venirmi meno. Farò ogni dovuta diligenza, e ne darò notizia. Vorrei godermi una stagione con loro Signori; ne altro mi avanza da desiderare. Faccia Dio grandissimo. Lascio mie poesie legate in tre fascetti; Lelia li racconcerà con provvedere alla spesa, e V. S. sosterrà la noia (di procurarne la stampa). Qui fermerò con raccomandarmi agli amici. Non dispero valerli; e caso che no, io non debbo avere ogni felicità in questo mondo.

Di Savona, li 2 Ottobre 1638.

fine delle opere di gabriello chiabrera

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