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del chiabrera | 387 |
desse disdegno contra colei onde si traeva il vituperio? quante sospirasse la corona di tanti regni, i quali gli fuggivano di mano per pura viltà? Erano quelle delizie ben pagate da tribolazioni, o no?
E quelle erano, o Carissimi, veramente tribolazioni, perciocché venivano con peccati; né erano conosciuto come ammonizioni, ne come; correggimeti del Signore dell’Universo. Ma noi, se sofferendo pena la ci pigliamo con pazienza, se la reputiamo grazia celeste, se la facciamo ammenda di nostre colpe, non dobbiamo appellarci nè tormentati, nè tribolati; il fiele di sì fatte molestie non amareggia, e care sono le lagrime, le quali ci fa spargere quella angoscia, ed i sospiri soavi e le querele sono dolcissime. Nè queste parole escono di mia bocca; ciò che dico cantalo Davidde, il quale si converse a Dio mentre Dio lo trafiggeva pure con spine; affermavalo Isaia, predicando che Dio ricercasi da noi mentre noi siamo annoiali dalle molestie; affermavalo s. Jacopo, il quale ne ammaestra a pigliare allegrezza quando per mille vie siamo affannati; e finalmente Cristo benedetto ci si fa specchio; al quale fu mestiere patire, e quindi trapassare alla gloria. Ma noi troppo siamo vaghi delle delizie, e troppo spavento ci porge la povertà, e della morte tremiamo al nome, come di cosa oltre ogni termine miserabile; e ciò fassi contra ragione, ed a grandissimo torto. In quale guisa può questo mondo farci sentire contristamento da paventarci, se egli se ne trapassa ed in un momento ci scaccia fuori di sè? Non è la vita mortale un volo? un salto? un battere di palpebra? Che fia dunque vivere tribolato, salvo un lieve momento di pena?
Ma sia lungo, ma sia gravissimo, la tribolazione viene dall’altissima mano di Dio, viene per minore gastigo, viene per maggiore nostra felicita; giungiamo, giungiamo: che la destra di Dio grandissimo fassi a’ tribolati sostegno, porge vigore a' stanchi, non lascia cadere i mali allenati e i caduti solleva. Ed a si brevi, e si leggieri travagli quale mercede? reami, la cui grandezza né anco può comprendersi col pensiero: passeggiare le cime del Ciclo, trascorrere campi stellati, gioire di lume onde forte si abbagliano i raggi del sole, farsi compagno di martiri, schierarsi co’ vergini, trattare con gii apostoli, domesticarsi con gli angioli. Qual gioia di dentro! somma dolcezza mirare il tormento de’ condannali diavoli; rammentare di avere loro insidie schernite, loro sforzi vilipesi, loro persuasioni risospinte. Può essere in questo mondo bene che ci abbandoni, o male che ci sorprenda, onde tante beatitudini si disprezzino? Afflizioni di corpo, passioni di animo, acerbezza di fortuna, in paragone perdono loro perversità; ed essene fatta la prova in molti modi, e con molte persone. Tal uomo perdette ricchezze, e lodonne Dio grandissimo; altri, percosso di lunga infermità, diedegliene dolcissime grazie; fu chi si coperse d'infamia, e sostennelo con lieta sembianza. E noi perchè perderemo coraggio? non forti, non saremo costanti? Pentiremoci di cammino ove la Vergine santissima ci precorre? Miratela per Giudea, miratela per Galilea, miratela in Nazarette, miratela in Gerusalemme, e quivi miratela tribolata. Non è tribolata se in mezzo ai rigori del verno spone il parto carissimo ai fiali dell’agnello? Non se per salvarlo se ne fugge in Egitto? Non se lo scorge sempre in fatica, sempre in affanni, sempre insidiato, sempre oltraggiato? Bene è vero, che senza tribolazione la vide il Calvario, e che le pendici di Golgota la videro fortunata. Ah specchio degli afflitti, ah reina de’ martiri, volgete lo sguardo verso di noi, e dateci mano. E voi, o Carissimi, vogliate gli occhi disvelare dell'intelletto, e pigliare via verso il promessovi Paradiso. Ma se vivendo lepidamente, ed ogni ora più raffreddandovi, sperate di guadagnare sempiterne corone, voi non avete l’arte appresa che dal sacro Evangelio s'insegna.
ALCUNE LETTERE FAMILIARI
a n. n.1
I popoli della Grecia per li tempi antichi, abitando in varie regioni, favellavano variamente; onde appellassi uno idioma attico, altro dorico, ed litro jonico, ed altro colico. Ciascuno di questi ebbe molti scrittori e di chiara fama: tal cosa non intervenne all’Italia anticamente, perché altra scrittura non si usò, nè a noi è trapassata, salvo romana. Dopo ammutolitasi la lingua latina, in Italia sorsero molti linguaggi per la lunga dimora che vi fecero popoli barbari, ma niuno ebbe pregio, se non fu il fiorentino; e per lunga stagione e prose e versi solamente fiorentinamente si dettarono. Ben leggesi presso Dante in una scrittura, ch’egli latinamente compose, ed appellolla De vulgari eloquentia, che sua opinione era che d’ogni lingua d’Italia si facesse.quasi una messe, stimando cosi doversi più arricchire ed ornare la favella, ma non veggiamo essersi abbracciata sì fatta opinione; e però fiorentinamente hanno gli uomini distesi i loro componimenti. A’ nostri giorni sorsero in Padova ed in Vicenza spiriti vivaci e leggiadri, i quali poetarono sotto nome di Begotto e di Mennone in favella vicentina e padovana di contado; e la loro eccellenza ha tratti uomini di senno a leggerli di buon grado. Ora vive uomo genovese, che a ´abbra
- ↑ Non è noto a chi sia diretta questa Lettera, che porta la data da Savona de' 10 Settembre 1630, e trovasi ristampata tra le illustrazioni alle Lettere del Chiabrera al Giustiniani, pubblicata dal P. Porrata in Bologna nel 1762, in 4º, e ristampate in Genova, 1829, in 8°.