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soli de’ sei allegati da Alessandro Chiappelli nel suo lavoro: «I poeti paesisti», pubblicato in un fascicolo Nuova Antologia», nel 1878.

Conobbi il tremolar della marina.
Quale ne’ plenilunii sereni
Trivia ride tra le ninfe eterne,
che dipingono il ciel per tutti i seni...

E li ricordo perchè, oltre il fine senso cromatico, essi dimostrano in Dante il proposito di non indugiarvisi, quasi direi di far che il lettore crei liberamente la visione, della quale il poeta segna solo l’essenza: il tremolar della marina, i plenilunii sereni, l’incognito indistinto.

Nei secoli seguenti la tavolozza della parola giunge al fanciullesco: l’oro basta per qualunque chioma bionda, la rosa per qualunque volto di persona bella, e il corallo per le labbra, e le perle pei denti, e le stelle per gli occhi. Quanto al paesaggio letterario, esso ricorda quello dei principianti che si trovano per le prime volte in campagna, sotto un ombrellone, con la cassetta sulle ginocchia: verde, verde a tutto spiano, e tocchi varii, quasi tessere da mosaico, per fiori del prato. Bisogna aggiungere che si tratta piuttosto d’incuria che d’incompetenza: la passione cromatica non era entrata ancora nell’anima letteraria.

Accennando dianzi all’inferiorità del senso coloristico degli antichi, mi riferivo soltanto a Egizii, Mesopotamia ed Ellenici, sia per qualche testimonianza di poeti e prosatori, sia per gli avanzi archeologici, sculture e architetture ove resta una colorazione di cui intendiamo perfettamente il valore decorativo, ma rimaniamo in dubbio su quello rappresentativo. Più tardi questa sommarietà di tavolozza, che ha una tinta per la carnagione muliebre, una per la virile, e così via, a poco a poco sparisce. I saggi di pittura murale romana del I secolo, per armonia di colore, come per ogni altro effetto d’intento decorativo, sono 21 insuperabili, più di tutti quelli tolti dalla casa patrizia della Farnesina, ora al Museo delle Terme. E quando il centro dell’impero si sposta verso Oriente, quando la porpora da rossa diventa violetta, da sanguigna, livida, quando Bisanzio succede a Roma, il lusso, l’ebrezza del colore genera probabilmente un fenomeno di colorismo, del quale s’intravedono alcuni segni nella letteratura greca e latina decadenti. In seguito il bujo incombe; la storia artistica, durante i secoli delle incursioni barbariche non si legge, per così dire, se non al lume delle fiaccole; poco dunque possiamo sapere del loro arcobaleno. Ma è notevole il fatto che nè prima, nè allora ci fossero l’aborrimento e la paura del colore proprii dell’epoca postnapoleonica, preparatrice della reazione oggi sovrana.

Invero il medioevo, oltre non avere il fantasma accademico d’una Grecia e d’una Roma bianche, di marmo, anzi di gesso, fantasma che ha fatto le squallide boccacce a me quand’ero scolaretto; non smise mai di colorire l’architettura e la scultura, sia dipingendole, sia variandone le materie con tarsie metalliche o lapidee. Dobbiamo giungere al Rinascimento perchè la plastica e l’ornamentazione architettonica si scolórino affatto; ci vuole la terribilità modellatrice di Michelangelo perchè nessun pennello osi accarezzare, nessuna impiallacciatura di pietra rossastra, verdastra, giallognola osi svariare il candore del marmo. Più tardi, il fastoso Seicento e il fiorito Settecento rendono alla scultura un po’ di colore, non già per dipintura, amenochè non si tratti di lavori intagliati nel legno, bensi per alternative di pietre di tinte diverse, serpentino, porfido, giallo antico, e di bronzo ora patinato, ora dorato.

Ma venne infine il funerale del colore, il principio del secolo XIX, e la cute scultoria, se cosi posso esprimermi, non si permise più se non qualche differenza di levigatura, il liscio e il semiliscio, mentre la pittura immergeva nel ranno la tavolozza, il rosso si svigoriva, l’azzurro diveniva scialbo, il violetto, il


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