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196 capitolo ventiduesimo


quelle tendenze; tanto precipitoso, che, per esempio, la tendenza di adibire il teatro a istituto di educazione morale del popolo, tendenza che ai tempi di Schiller fu presa sul serio, viene già annoverata tra le anticaglie poco attendibili di una cultura superata da un pezzo. Mentre in teatro e nei concerti dominava il critico, nella scuola il giornalista, nella società la stampa, l’arte si degradava in un oggetto di trattenimento della più vile specie, e la critica d’arte era adoperata come cemento a tenere insieme un mondo frivolo, dissipato, egoistico e, per giunta, miserabilmente privo di originalità, il cui stato mentale ci è fatto intendere dalla parabola schopenhaueriana degl’istrici; talmente che in nessun tempo mai si cicalò tanto di arte, e tanto poca se ne ebbe. Ma càpita tuttora di far la conoscenza di un uomo, il quale sia in grado di parlare di Beethoven e di Shakespeare? A tale domanda ognuno risponderà secondo il proprio sentimento: a ogni modo, con la risposta dimostrerà che cosa egli intende per «cultura», presupposto che in generale cerchi di rispondere alla domanda, e che sul bel principio non ammutolisca dalla stupefazione.

Per contro, chi fosse stato dotato dalla natura di qualità più nobili e delicate, sebbene poi divenuto, nella conformità or ora descritta, un barbaro criticante, dovrebbe pur parlare di un effetto altrettanto inatteso quanto del tutto incomprensibile, suscitato in lui, per dirne una, da una felice esecuzione del Lohengrin; solo che