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Capitolo XIV.
Pensiamo ora al grande occhio ciclopico di Socrate, volto sulla tragedia; quell’occhio in cui non si è mai accesa la vaga follia dell’entusiasmo artistico; e pensiamo che gli era inibito di guardare con diletto negli abissi dionisiaci: ebbene, nella «sublime e glorificata» arte tragica, come la chiama Platone, che cosa mai doveva vedere? Qualcosa di schiettamente irragionevole, con cause che sembravano senza effetti, e con effetti che sembravano senza cause; per giunta, un tutto talmente vario e multiforme, che a una mente riflessiva non poteva non ripugnare, e ad anime eccitabili e sensitive non riuscire un fomite pericoloso. Sappiamo, che era uno solo il genere poetico che egli intendeva, la favola di Esopo; e ciò gli accadeva senza dubbio con quella sorridente acquiescenza con cui l’onesto e buon Gellert nella favola dell’ape e della gallina canta le lodi della poesia:
Tu vedi in me a che cosa giovi: |
Se non che parve a Socrate, che l’arte tragica non «dice la verità» niente affatto; senza con-