Pagina:Misteri di polizia - Niceforo, 1890.djvu/146


133


CAPITOLO XVII.

Lord Byron, i Romantici

e la contessa Guiccioli.

Non era un cicisbeo, o, per adoperare la frase del Foscolo, non era nè un mezzo marito, nè un mezzo amante, lord Giorgio Byron che in quei giorni (1819) preceduto dalla fama di poeta grandissimo e di apostolo fervente ed appassionato del bel sesso viaggiava l’Italia, la cui lingua trovava dolce come i baci di donna amata. Già, questo paragone non aveva sapore d’Arcadia, nè avrebbe potuto averlo, visto e considerato che il nobile Lord non chiedeva soltanto alle muse teneri sguardi e sdolcinate moine. In quel mondo cascante e ad un tempo vizioso, che nascondeva il desiderio della carne sotto uno strato di galanteria che aveva o pretendeva d’aver l’aria di non andare più in là dell’epidermide, la comparsa dell’autore del Corsaro e del Manfredo segnò una vera rivoluzione. Quel poeta, che non era affamato come tanti altri poeti di conoscenza di molte di quelle signore; che portava via le mogli degli altri; che imbastiva dei romanzi d’amore, dove il protagonista, se rimaneva dinoccolato e slombato, non era certamente pel soverchio sospirare; che cantava che il matrimonio nasce dall’amore come l’aceto dal vino; che non aveva paura d’incanagliarsi amando una donna del popolo colla stessa passione con che amava una duchessa dei tre Regni Uniti o una contessa d’Italia; che il tempo che non consumava fra le donne, i cavalli e il vino, passava nelle congreghe rivoluzionarie, quel poeta, diciamo, rassomigliava di troppo ad un angelo decaduto, perchè le figlie degli uomini non sospirassero per lui.

Naturalmente, i mariti lo ritennero come un vero flagello. Capivano che non si trattava di uno dei soliti cicisbei