Al picciol capo, ai cheti atti, al sereno
Riso, al voluttuoso occhio natante
Tra il vino e il sonno, tra il demonio e Dio, 410Frate il diresti, e forse il fu. Qual suole
Al tronco d’un’altera arbore, o ai fianchi
D’un insigne castello arrampicarsi
Co’ torti rami la paffuta zucca;
Fatta superba dell’aggiunta altezza 415Gl’indiscreti rigogli intorno spande,
E guardando le magre erbe dall’alto,
Scorda l’umil radice e al Sol rosseggia;
Tal di Dante alla vasta ombra seduto
Sua fama impingua il chiosator Morone, 420E la frase imbroccando e il verbo e il nome
Del poema divin, lancia d’intorno
Tal furia di comenti e di saliva,
Che scrocca il plauso al sonnecchioso astante.
Nè te lascia la Musa, o multiforme 425Delio, a cui dalle labbra ampia e diversa
Copia di celie e di saver discorre.
Vedilo: come all’agitar del vaglio
Va saltando qua e là l’arido cece,
Così dalla balzana indole spinto 430Tra la folla ei s’aggira, e quindi e quinci
Motti e sogghigni ed aforismi avventa.
Smettete, o voi che sovra illustri carte
Vi state a logorar l’ingegno e il tempo,
Perchè all’arte natía decoro alcuno 435E al viver vostro un qualche onor mai vegna:
Così agli astri non vassi! A voi maestro,
A voi speglio costui, che la mordace
Alma e il saper nelle gazzette attinto
Rivende alle gazzette un tanto il braccio. 440Inchinatevi a lui! Non che a sè stesso,
Gloria perenne a chi gli par procaccia: