23. Orsù, dic’egli, all’armi t’apparecchia,
E vedrem se farai tante cotenne1.
A questo suono allor mona Pennecchia2
Dice fra sè: no, no, non tanto ammenne3,
Sarà meglio qui far da lepre vecchia.
E senza star a dir pur al cui vienne4,
Fa prova, già discesa dal destriero,
Se le gambe le dicon meglio il vero. 24. Le guarda dietro Calagrillo e grida:
M’avessi detto almen salamelecche!
Volta faccia, vigliacca, ch’io t’uccida
E ch’io t’insegni farmi le cilecche5;
Così tu, che intimasti la disfida,
Mi lasci a prima giunta in sulle secche?
Ma fa’ pur quanto sai, ch’io ho teco il tarlo,
E ti vo’, se tu fossi in grembo a Carlo6. 25. Se al cimento, dic’ella, del duello
A furia corsi, or fuggolo qual peste;
Però va ben, che chi non ha cervello
Abbia gambe; e così mena le seste7
E intana di ritorno nel castello,
Perocchè dopo il muro salvus este.
Gridi egli quanto vuol, la va in istampa8,
Chè per le grida9 il lupo se ne scampa.
↑St. 23. Cotenne. Bravure. (Minucci). Forse cose o covelle in lingua ionadattica. (Biscioni.) (Nota transclusa da pagina 422)
↑Mona Pennecchia. Detto derisivo alle donne. (Nota transclusa da pagina 423)
↑Ammenne. Non tanta furia, fretta. Forse viene da quella tempesta di Amen che per lo più regalano ai devoti i cantanti nelle messe in musica. (Nota transclusa da pagina 423)
↑Vienne, chè io me ne vado. Senza metter tempo in mezzo. (Nota transclusa da pagina 423)