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della crusca ix

a tutte le lingue del mondo. Sono modalità secondarie e accidentali; o si riducono poi al nulla, o poco meno che al nulla, per coloro che sanno la propria lingua, e l’hanno imparata, e la parlano e scrivono bene, come la scrisse al tempo suo il Gelli fiorentino, e come la scrissero al tempo nostro il Giordani e il Leopardi, non fiorentini nè l’uno nè l’altro. E di mano in mano che si stringe e si fortifica la unità nazionale, vanno pur facendosi minori le anomalie dei dialetti, come si è visto in Francia e in Ispagna, dopo che di parecchi regni vi si formò un regno solo, e come vediamo anche in Italia dopo il 1860. Imperocchè ella è cosa affatto naturale, che unificandosi il linguaggio delle grandi assemblee e de’ grandi poteri dello Stato, il linguaggio degli ufficii governativi, il linguaggio dei dazii, delle dogane e delle altre gravezze, il linguaggio de’ magistrati giudiziarii, il linguaggio della milizia di terra o di mare, il linguaggio de’ traffichi e delle misure e de’ pesi, e così discorrendo; è naturale, io dico, che unificandosi questi linguaggi, venga meno la moltiplicità delle antiche nomenclature, come è naturale che crescendo tra gli uomini le comunicazioni e i contatti, sempre più si facciano tra loro somiglianti le maniere di esprimersi. Ma sieno quali si vogliano, o più o meno risentite, le varietà de’ vernacoli, se in Italia vi fu, vi è e vi sarà una nazione, vi fu, vi è e vi sarà parimante una lingua italiana. Il come poi questa lingua vogliasi chiamare, poco monta. In ogni caso mi pare evidente, che tanto vale il dir fiorentino la lingua che si parla e si scrive dagl’Italiani, quanto il dir parigina quella dei Francesi, madrilena quella degli Spagnuoli, berlinese quella de’ Tedeschi, londinese quella degl’Inglesi, e così ogni altra.