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RIME

     Chi più ti de’ onorar, quel ti fa peggio;
Legge non v’ha che per te si declini:
8Co’ raffi con la sega e con gli uncini
Ognun s’ingegna di levarne scheggio;
     Chè pel non ti riman che ben ti voglia:
Chi ti to’ la bacchetta e chi ti scalza,
11Chi ’l vestimento stracciando ti spoglia.
     Ognun lor pena sopra te rimbalza:
E nïun è che pensi di tua doglia,
14O s’ tu dibassi, quando sè rinalza;
                         Ma ciascun ti rincalza:
Molti governator per te si fanno,
17E finalmente son pure a tuo danno.




XV


     Se nel mio bene ognun fosse leale,
Sì come di rubarmi si diletta,
Non fu mai Roma, quando me’ fu retta,
4Come sarebbe Firenze reale.
     Ma siate certi che di questo male
Tardi o per tempo ne sarà vendetta:
Chi a me torrà, converrà che rimetta
8In me, Comun, del vivo capitale.
     Tale per me fu in cima della rota
Che in simil modo rubando m’offese,
11Onde la sedia poi rimase vôta.
     Tu che salisti quando l’altro scese,
Pigliando esempio, mie parole nota;
14Deh, fa che impari senno alle sue spese!
                         Chè non v’ha più difese:
Poiché, tu vedi, Giustizia mi vendica.
17Deh non voler del mio tesor far endica!


(Questo e l’antecedente, primieramente pubblicati dall’Allacci in Poeti antichi (Napoli, 1661), furono poi ristampati dall’Ab. Fiacchi, come di Dante, nel vol. XIV degli Opuscoli scientifici e letterari (Firenze, 1822: onde prendemmo qualche variante a migliorar la lezione.)



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