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212 CANTO


XXVII.


Era capo di banca allor per sorte
     Un Giacopo Mirandola, uom feroce,
     Nemico aperto alla romana corte,
     220Turbulento di cor, pronto di voce.
     Questi volgendo alle ragioni accorte
     Del romano Legato il dir veloce,
     Con quella autorità ch’avuta avea,
     224Così parlò dal luogo ove sedea:

XXVIII.


Il Papa è Papa, e noi siam poveretti,
     Nati, cred’io, per non aver che mali;
     E però siam da lui così negletti,7
     228E al popol fariseo tenuti eguali.
     Se per tiepidità noi siam sospetti,
     Per diffidenza voi ci fate tali:
     Ma se per troppo ardor; che possiam dire,
     232Se non che ’l vostro giel nol può soffrire?

XXIX.


Fra i divoti di Dio noi siamo soli
     Che non godiam di quel ch’agli altri avanza,
     Nè possiamo ottener come figlioli
     236Nel paterno retaggio almen speranza.
     Vengono genti dagli estremi poli,
     E trovano appo voi felice stanza:
     Noi soli siam dagli avversari nostri
     240Per esempio di scherno a dito mostri.

XXX.


Se in lupi si trasformano i pastori,
     Gli agnelli diverran cani arrabbiati:
     Che fra gli oltraggi quei sono i peggiori,
     244Che ci fanno color ch’abbiamo amati.
     Ha da noi Federico armi ed onori,
     Però ch’in libertà ci ha conservati:8
     Egli tratta con noi con cor sincero,
     248E noi serbiamo fede al sacro Impero.