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UNDECIMO | 195 |
XXIII.
Cominciò il vino a lavorar pian piano,
E a riscaldar il cor timido e vile,
E a mandare al cervel più di lontano,
188Stupido e incerto, il suo vapor sottile:
Onde il Conte gridò ch’era già sano
Che ’l dolor gli avea tolto il vin gentile;
E balzando del letto i panni chiese,
192E tosto si vestì l’usato arnese.
XXIV.
Indi tratto, fremendo, il brando fuora,
Tagliò Zeffiro in pezzi e l’aura estiva;
E se non era il suo padrino, allora
196Alla battaglia senz’altr’armi ei giva.
L’almo liquor che i timidi rincora,
Puote assai più che la virtù nativa.
Ben profetò di lui l’antica gente;
200Ch’era, sovra ogni re, forte e possente.
XXV.
Or mentre s’arma, ecco Renoppia viene,
E ’l coraggio gli addoppia e la baldanza;
Che con dolci parole, e luci piene
204D’amor, gli fa d’accompagnarlo istanza.
Egli che ’l foco acceso ha nelle vene,
Commosso da desio fuor di speranza,
E da furor di vino, ambo i ginocchi
208A terra inchina, e dice a que’ begli occhi:
XXVI.5
O del cielo d’Amor ridenti stelle,
Onde della mia vita il corso pende;
D’amorosa fortuna ardenti e belle
212Ruote dove mia sorte or sale or scende;
Immagini del sol, vive facelle
Di quel foco gentil che l’alme incende,
Il cui raggio, il cui lampo, il cui splendore
216Ogn’intelletto abbaglia, arde ogni core;6