D’elci foresta in queta ombra si giaccia.
E chi il muto silenzio e l’orror cupo
Sul merigge appressò delle solinghe
Selve, non pur scorgea moversi al dolce 145Sospir delle incostanti aure le frondi,
E limpidi ruscelli in lor vïaggio
Mormorando piegar l’erbe sorgenti;
Ma spesso vide i rozzi tronchi aprirsi,
O ribollendo le chiare acque, uscirne 150Dell’imo fondo boscherecce dive
Di non mortal bellezza; e discoprendo
L’intatto omero e il seno, e le rosate
Braccia, ignude posarsi a le bell’ombre,
Finchè dagli antri i Satiri procaci 155Sopra le Dee correndo, il timor caccia
Le vergini ritrose, e qual ne’ tronchi,
E qual nelle materne onde si cela.
Sebbene esizïal morbo non sia,
Tuttavolta crudele e nell'aspetto 160Di sconcia lebbra, i mal guardati armenti
La scabbia assale e i bei corpi difforma.
Dura peste per certo, impazïente
Di soccorso e di posa: che dai vivi
Il divino Alighier tradusse un giorno