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vedete, che lo spiritello vincitore s’annidi nell’idioma nostro, nel soave idioma che fa così armoniosa la rima — l’idioma caro e scellerato che tiranneggia i prosatori e che si abbandona con tanta docilità nella lirica e vi si adagia con tanta sovrana eleganza con tanto gentile impero, come se fosse quella la sua vera e naturale dimora. Io non chiamerò la poesia francese, come Heine che la detestava, «acqua tiepida rimata»; ma osservo che la morbidezza e la delicatezza suprema della lingua francese che fanno la prosa, per grazia carezzevole, inarrivabile, stemperano la poesia e le tolgono la sua maggior forza e il suo maggior pregio: la sintesi. Quando Victor Hugo volle esser più grandioso fu iperbolico, quasi grottesco; Leopardi cantando l’umile poesia degli orti e della vita rusticana fu quasi solenne. E lasciando in pace Leopardi e lasciando anche il Prati, l’Aleardi e lo Zanella, de’ quali — come dite giustamente — non è più tempo, perchè non ci ricorderemo noi, oltre che del Carducci, di Olindo Guerrini che fuse pure nella gran corrente della poesia italica una vena distinta e canora di poesia individuale; del d’Annunzio, l’incantatore; di Rapisardi ciclopico; del fine autore di Valsolda, e di Praga, di Boito, di Graf, di Panzacchi, di Mazzoni, di Cannizzaro, di Marradi, del Costanzo, del Tanganelli, del Pascoli, del Giorgieri-Contri, del Pitteri, del De Amicis che ebbe pure accenti di consolante ed elevata poesia, di tanti altri infine che si rivelano tuttora poeti eleganti e valorosi e che sarebbe lungo troppo enumerare? Se in Italia ci si potesse persuadere, in letteratura come nelle altre cose, che della sostanza ce n’è ancora e buona, se invece di trattare ogni nuovo frutto dell’ingegno nazionale come Mefistofele tratta