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vincenzo monti 101


Omero non dovette essere noto al nostro medioevo, se non per alcuni estratti e compendj, nè forse altrimenti lo conobbe Dante. Se il Petrarca e il Boccaccio poterono leggerlo nella versione di Leonzio Pilato, non pare fosse studiato nel Cinquecento, ancor meno nel secolo succeduto, malgrado il vulgarizzamento così poco simpatico del Salvini; varj lo tradussero nel Settecento, fra cui levò rumore il Cesarotti. Questi conosceva il greco, ma allattato dagli Enciclopedisti, non sapeva spogliarsi de’ sentimenti e dei modi del suo tempo; e v’adoprò una gonfiezza, che discorda dalla atletica nervosità del suo modello: poi rimpastò l’Iliade stessa, mutilandone le sublimi audacie e le originali vivezze per rendere dignitosi gli Dei, ragionevoli gli uomini, e sostituire il cerimoniale all’ingenuità, togliendo o cangiando quel che repugnava ai costumi, al galateo, all’arte moderna. Gli amici preconizzarono l’Iliade italiana; quel verso ribombante, quello splendore bengalico piacevano alla gioventù e alle donne, abituali dispensieri non della gloria ma della voga; i lodatori sistematici lo dichiararono superiore al suo testo, che non aveano letto; ma gli studiosi fremettero a quella profanazione; i begli spiriti dipinsero un Omero vestito alla francese, con abito listato, scarpe a punta, gran parrucca, due ciondoli d’oriuolo, e in mano l’Illiade italiana1.



  1. Comincia:

    Del figliuol di Peleo, del divo Achille
    Cantami l’ira, ira fatal.

    Riprovandolo, il Monti avverte che «il nome dell’immortale traduttore di Ossian suona sì alto, che anche de’ suoi difetti, ove pure sien tali, convien parlare con riverenza». Eppure in una lettera al Cesarotti, confessa d’aver dato il pensiero di quella caricatura, naturalmente disapprovandone l’esecuzione.

    Qui il Cesarotti mi riesce migliore, il quale, ai 16 dicembre 1805, rispondevagli:

    — Vi ringrazio della pena che vi siete preso di sincerarmi sulla caricatura del ritratto d’Omero: ma non v’è bisogno di tanto. Vi parlerò anch’io con ingenuità e con franchezza, giacchè non intendo di cedere ad alcuno in queste due qualità. M’era noto che il mio lavoro omerico non incontrava gran fatto la vostra grazia; per ciò, quando intesi attribuirsi a voi quel ritratto, non credei, a dir vero, la cosa impossibile, ma non pertanto non prestai fede a quella voce, poichè non amo di credere rei di una scortesia insolente quei che io stimo e rispetto pe’ loro talenti. Vi dirò anzi che la notizia di questo ritratto, in luogo di farmi adirare, mi fe sorridere. L’idea mi parve spiritosa e felice, nel senso di chi la concepì, benchè non credessi di meritarla. Io non sono (perchè mi conosciate meglio) uno del genus irritabile vatum, nè mi sono mai offeso, nè ho meno stimato un uome di merito perchè discordi da me in materia di lettere, o perchè non apprezzi le mie cose e grado del