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cola di rienzo 363

la notte precedente in chiesa ad orare; poi sentito messa, armato tutto fuorchè la testa, sale al Campidoglio, cinto da giovani infervorati e da una pompa di bandiere, pennoni, emblemi, di tutto insomma quel chiassoso tripudio che in niun luogo si conosce quanto a Roma; dalla gradinata non discorre come dee un riformatore, ma declama come sogliono i demagoghi, ed acquistandogli autorità il vescovo d’Orvieto, vicario del papa, che venivagli a fianco, lesse un regolamento


    passato si cominciò a presentarlo come una vittima della tirannide papale, come un precursore de’ riformatori del Cinquecento, o dei Giansenisti del Seicento: principalmente a’ nostri tempi chi lo difendesse viene stampato eretico dagli esagerati d’una parte, gesuitante dagli esagerati dell’altra chi l’incolpasse: arti abituali colle quali il secolo nostro pretende arrivare alla verità. Metter nè un Lutero nè un Ciciruacchio al XII secolo è anacronismo, quanto il metter all’età nostra un Pietro Eremita o un san Francesco d’Assisi. I nostri Ghibellini che volevano umiliare il papa, non per questo erano ligi all’imperatore germanico; che se a questo si attaccavano i tirannelli per prepotere nelle città e per uccidere la libertà comunale, i pensatori volevano, o almeno ideavano, un imperatore romano che stesse in Italia. Lo dice chiaro anche Dante, che pure si appassionò per Enrico VII; perchè sempre gli Italiani, da Narsete sino a Felice Orsini, sperarono liberarsi dagli stranieri per mezzo degli stranieri. Forse i Romani, e Arnaldo con essi, avevano sperato di sbalzar il papa coll’opera di Federico, il quale, come se ne vanta il suo cugino e storico Ottone di Frisinga, qui portò «pro auro arabico teutonicum ferrum; sic emitur a Francis imperium»; ma il prefetto della città, che in occasione delle prediche di Arnaldo era stato insultato e peggio, fe prendere Arnaldo, e giustiziare.
    Il contemporaneo Geroldo di Reichersperg (nel libro I De investigat. Antichrist. ap. Gretser, Prolegomena ad scriptores adversus Waldenses, cap. 4) dice: — Quam ego vellem pro tali doctrina sua, quamvis prava, vel exilio vel carcere, aut alia pœna præter mortem punitum esse, vel saltem taliler occisum, ut romana Ecclesia sive curia ejus necis quæstione careret! Nam, ut ajunt, absque ipsorum scientia et consensu a præfecto urbis Romæ, de eorum custodia in qua tenebatur ereptus, ac pro speciali causa occisus ab ejus servis est. Maximam siquidem cladem ex occasione ejusdem doctrinæ idem præfectus a romanis civibus perpessus fuerat; quare non saltem ab occisi crematione et submersione ejus occisores metuerunt quatenus a domo sacerdotali quæstio sanguinis remota esset. Sed de his ipsi viderint, sane de doctrina et nece Arnaldi idcirco inserere præsenti loco volui, ne vel doctrinæ ejus pravæ, etsi zelo forte bono, sed minori scientia prolata est, vel ejus necis perperam actæ videar assensum præbere».
    Del resto, in quei giorni il papa ed i cardinali erano affatto in arbitrio del Barbarossa, che giunse fin a portarli via: e il suddetto Ottone di Frisinga scrive: — Mane facto, quia victualia nobis defecerant, assumpto papa et cardinalibus cum triumpho victoriæ læti discessimus» (p. 989 dell’edizione del Muratori).
    Meglio del Tamburini e d’altre meschinità dei Giansenisti del secolo passato, vedi H. Franke, Arnold von Brescia und seine Zeit. Zurigo, 1852.