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PREFAZIONE XLV

E questa lingua, che, per usare una acconcia espressione dantesca, era di tutta la Grecia e non proprio di ognuna parte, attinse Omero per i suoi poemi immortali. Essa non è, come tuttora la concepisce la convenzione filologica, uno ionico inquartato, non si sa perché, di tanti e tanti polloni eolici. Essa raccoglie elementi d’ogni dialetto. E la loro fusione raggiunge il grado perfetto, concesso solamente ai fenomeni naturali e spontanei, negato a qualsiasi processo artificiale, anche se, per inverisimile ipotesi, lo escogitassero un Dante, un Omero.

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E non vorrei avere l’aria di sottrarmi ad una domanda, in apparenza formidabile: «E la questione omerica?».

Ma la questione omerica, impostata nelle forme canoniche, che tutti, del resto, possono ammirare in qualsiasi manualetto di letteratura, in realtà non ha più ragion d’essere.

Il presupposto di tale questione era il convincimento che i poemi d’Omero fossero cantafavole, senza veruna aderenza con la realtà, e nelle quali gli eroi erano altrettanto ipostàsi o simboli di fenomeni naturali, le loro avventure null’altro se non chimere, i paesi in cui si svolgevano, tanto reali quanto quelli visti da Sindbab nelle Mille e una notte.

Ma via via che le scoperte archeologiche e gli studî orientali hanno provata la formidabile aderenza dei poemi, e massime dell’Iliade, con la realtà storica, il presupposto è crollato. Poemi come l’Iliade, che in ogni loro parte, sia quanto agli eventi, sia quanto alla psicologia, sia quanto al costume, si svelano fedeli specchi d’un’epoca sicuramente documentata da altre fonti, non possono proprio essere stati composti in una