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178 | Matteo Bandello |
Questo sonetto è qui, logicamente e cronologicamente, fuor di luogo. Giunge improvviso, non preparato nè dalle rime che precedono, nè da quelle che seguono, nelle quali il poeta continua a parlare di lei come donna viva.
L’anno della morte della Mencia, accettato dal Pèrcopo e che non discorda con i casi successivi della vita del poeta, e perciò la data del sonetto — è presumibilmente il 1527.
A che t’affliggi, e piangi il partir mio,
S’io son volata nel celeste coro,
Ed ivi stommi in mezzo di coloro,
4Cui vita è sempre contemplar Iddio?
Non ti sovvien che quando l’alma uscìo
Del career suo, ch’allor ti dissi: i’ moro
Lieta, Signor, ed emmi gran ristoro,
8Che qui ti veggio lagrimoso, e pio.
Però se m’ami, come dimostravi,
Mentr’era in terra, non t’affligger tanto,
11Per non mostrar che ’l mio gioir ti gravi.
Che se potesse in questo luogo santo
Doglia turbar dolcezze sì soavi:
14I’ che farei al suon del tuo gran pianto?
V. 1. Partir, la mia dipartita dal mondo.
V. 2. Celeste coro dei beati. È la frase di Dante per coloro che vivono di vita contemplativa; vedi anche v. 4.
V. 7. Emmi, mi è.
CXVIII.
Il poeta consiglia alla Mencia di non vagheggiarsi allo specchio, o ai limpidi rivi se non vuole far la fine di Narciso, nè inorgoglire.
Madrigale.
A che cercar gli specchi e freschi rivi,
Se più d’ogn’altra bella, bella sete?