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142 | Matteo Bandello |
Ed in sì caro errore
M’abbagli in mille dolci, e amare tempre.
Oh me beato, se durasser sempre!
Lasso! che poi nè dir so come i’ veggio,
Che vaneggiando vo la notte e ’l giorno,
Ond’a me stesso torno
Qual che sognando nel più bel si desta.
E come di sì dolce error m’avveggio,
In così fatta guisa al cor ritorno,
Ch’aver mi par attorno
Folgori e tuoni e lampi con tempesta.
E tu stordita, dolorosa e mesta
Lasci Madonna, e qui tornando trovi
Che nulla più mi giovi,
Perchè stando lontano da Colei,
Meglio è morir che viver senza lei.
Anima errante s’a Madonna torni,
Con lei ti ferma, e non tornar più meco.
Che mentre tu se’ seco
S’ogni dolcezza vaneggiando avemo,
Resta là sempre, o venga il giorno estremo.
V. 2. Sforza il forte, allitterazione.
V. 9. M’annoia, mi tedia. È il lat. noxia, la noia in senso classico nel quale usarono questo vocabolo i nostri maggiori da Dante (Inf., I, v. 76), al Petrarca (Canz., XXXVI, v. 4), all’Ariosto, (Orl. Fur., I, v. 66), e intorno a cui già Gherardo da Patecchio nel duecento, aveva composto un suo poema col titolo di Noie.
V. 14. Il Costa dà questo verso testualmente così. Il senso non corre. Parrebbe doversi intendere: allorchè tu, o anima mia, lasci il mio corpo e vai al vago viso, ecc.