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xviii | introduzione |
mero de’ poeti, cantò sotto diverse forme il dolore, che la maggior parte de’ nostri filosofi dichiara necessario retaggio dell’uomo. Ma a questi lamentevoli accenti, alle parole che esprimono un senso di scontentezza pel mondo e per la vita, se porgono facile orecchio i singoli, perchè trovano un’eco profonda ne’ loro cuori; l’intiera stirpe nostra non è inclinata ad udirli; imperocchè, troppo soddisfatta di sè stessa, è predominata da un altro sentimento, che manca a quelle genti, appo cui il Buddhismo sparse con largo frutto le sue dottrine. Da noi regna sovrano il sentimento degli alti destini che avemmo da natura; e la nostra stirpe non è perciò propensa a sentir dir male, di sè e della sua condizione; si proclama altera dell’esser suo, ripiena di quel «fetido orgoglio» che il Recanatese, rimprovera all’umanità tutta. A noi, che nulla reputiamo impossibile, non potevano addirsi le sconfortanti dottrine dell’antica religione di Çâkyamuni.
Mentre, secondo il pensare de’ Buddhisti, il dolore è necessario, continuo, perenne a tutti gli esseri viventi, inevitabile, senza riparo; presso noi invece ogni male ha il suo rimedio, ogni sventura la sua consolazione. La vecchiezza, le malattie e la morte furono le tre maggiori infelicità, inerenti all’umana natura, che affacciandosi alla mente del giovanetto Siddharta, che tale è il nome del fondatore del