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introduzione xiii

In queste amare parole, che il Leopardi mette in bocca alla sventurata poetessa di Lesbo, si trova il concetto fondamentale, a cui s’informarono le primitive dottrine buddhiche. In tanta instabilità delle umane vicende, un fenomeno costante e perenne apparve alla mente di Çâkyamuni, il dolore; e nessuna cosa gli sembrò, come al Leopardi, più manifesta e palpabile che l’infelicità di tutti i viventi.1

Il Buddha fu, come dicemmo, quasi contemporaneo di Confucio e di Lao-ze; ma uscito da una stirpe ben diversa, l’ariana, e cresciuto in mezzo a ben diverse istituzioni civili e religiose, ebbe pure ad adempiere una differente missione. Suo scopo non fu quello di Confucio: riformare, cioè, la società, in cui visse. Il filosofo cinese volle far risorgere la sua nazione, rinvigorirla, renderla duratura; laonde predicò il buon governo, le buone leggi, e la saggezza de’ primi sovrani che costituirono l’Impero di mezzo: egli voleva la salute dello Stato, il Buddha quella dell’uomo. Portò, è vero, Çâkyamuni una riforma radicale e benefica alla società indiana, che per poco la conservò, ma fu un risultato indiretto delle dottrine che quel saggio propugnava. La divisione delle caste doveva di necessità sparire, impe-


  1. Confronta: Leopardi, Dialogo di Timandro e di Eleandro.