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mente dame, che m’è mancato sempre il coraggio — anche in momenti dolorosi — di affrontar la boria quattrinaia delle droghiere arricchite che pagano mediocremente la maestra e — quel che è peggio — la trattano come una cameriera o giù di lì.

Maria Collino, figlia di donna Giulia Marliani aveva, in quell’epoca, sedici o diciassett’anni; e sarebbe stato difficile immaginare una figurina di fanciulla più elegante, più spigliata e graziosa.

Ci sentimmo prese subito, l’una per l’altra, da una vivissima simpatia che non tardò a mutarsi in tenerezza fraterna.

Ella mi parlava della sua infanzia, io della mia: e fra una chiacchiera e l’altra studiavamo storia, geografia e leggevamo Dante o qualche bella pagina del Manzoni.

Spesso donna Giulia andava a pranzo in casa Peruzzi o altrove: e siccome Maria non era stata ancora presentata in società, rimaneva in casa, affidata a me. Ricordi, Maria, i pranzetti intimi nel tuo salottino di via del Podere, le nostre risate, le nostre innocenti ghiottonerie? Ricordi, Feo, il minuscolo cagnolino a cui avevamo insegnato mille esercitazioni ginnastiche?

Per due anni io insegnai a quella gentilissima il poco ch’io sapeva: per due anni ella insegnò a me ogni gentilezza del pensiero, ogni delicatezza del sentimento. E non si credano queste le solite incensature che gli umili tributano ai felici della terra per fini più meno interessati.